Fisiopatologia della Malattia di Parkinson
Simone Simoni¹, Pasquale Nigro¹, Paolo Calabresi¹²
1. Clinica Neurologica, Università degli Studi di Perugia | 2. IRCCS Fondazione S. Lucia, Roma
INTRODUZIONE
La Malattia di Parkinson (MP) è la seconda patologia neurodegenerativa più diffusa al mondo; si stima che colpisca circa 5 milioni di persone. L’età media d’esordio è intorno ai 60 anni, la prevalenza e l’incidenza aumentano esponenzialmente con l’età, con picco dopo gli 80 anni (Kalia LV & Lang AE, Lancet 2015). Caratteristica anatomopatologica è la progressiva perdita dei neuroni dopaminergici della pars compacta della substantia nigra che proiettano al nucleo striato.
La dimostrazione di una precisa localizzazione della dopamina a livello cerebrale (per l’80% circa confinata nei nuclei della base), alla fine degli anni ’50, è stata una delle tappe più significative nella comprensione della fisiopatologia della MP. In seguito, Oleh Hornykiewicz osservò, a livello cerebrale, nei soggetti che avevano sofferto di MP, bassi livelli di dopamina, norepinefrina e serotonina, con la dopamina che risultava ridotta in modo più significativo. Birkmayer e Hornykiewicz, ipotizzarono dunque, sulla base di tali evidenze, che i pazienti affetti da MP potessero trarre giovamento da un incremento dei livelli cerebrali di dopamina, gettando le basi per il rivoluzionario impiego della levodopa (L-3,4-diidrossifenilalanina), ad oggi ancora la principale terapia sintomatica. Precursore della dopamina, tale sostanza infatti è in grado di ridurre marcatamente i sintomi nei pazienti con MP ma non di interferire con la degenerazione delle cellule nervose della substantia nigra che prosegue nel corso degli anni ed è responsabile dell’evoluzione della malattia.
Gran parte degli sforzi in ambito scientifico negli ultimi 50 anni sono stati rivolti allo studio dei neuroni dopaminergici e della loro apparente selettiva vulnerabilità. Tuttavia, il quadro clinico comprende anche la coesistenza di sintomi non motori (ad es. depressione, disturbi del sonno, iposmia, stipsi, fatica, declino cognitivo), molti dei quali non sono riconducibili alla riduzione della dopamina striatale e di conseguenza non rispondono alle terapie dopaminergiche.
Le cause della MP rimangono ad oggi da definire, tuttavia l’opinione prevalente è che possa essere manifestazione di una combinazione di fattori genetici ed ambientali che innescherebbero e sosterrebbero meccanismi di “misfolding” (alterato ripiegamento) proteico, disfunzione mitocondriale, stress ossidativo, alterato equilibrio del calcio ed infiammazione (Schapira A, Neurology 2006).
FATTORI GENETICI
Il contributo di una predisposizione genetica è sostenuto dall’osservazione di una storia familiare positiva nel 10-20% dei pazienti. Attualmente non si può stabilire con chiarezza quale sia la probabilità di ereditare questa predisposizione all’interno di una famiglia. Le rare eccezioni sono le famiglie in cui la predisposizione genetica è legata ad una mutazione di un singolo gene (malattia monogenica) (Gasser T, Mov Disord 2007). Lo studio di una famiglia di Contursi, paese in provincia di Salerno, permise, negli anni ‘90, la mappatura e la successiva identificazione del primo gene responsabile di una forma monogenica di parkinsonismo: il gene dell’alfa-sinucleina. Negli anni successivi sono stati identificati numerosi altri geni responsabili di parkinsonismo monogenico. Queste scoperte hanno rivoluzionato l’approccio al paziente con MP, rappresentando un enorme passo in avanti nella comprensione dei meccanismi con cui si instaura la malattia ed aprendo nuovi orizzonti terapeutici. Le proteine codificate dai geni implicati nel parkinsonismo monogenico sembrano essere coinvolte principalmente in due vie metaboliche: la via dei proteosomi legati alla ubiquitina (deputata al catabolismo intracellulare, la cui saturazione sarebbe in grado di determinare accumulo proteico e formazione dei corpi di Lewy) e il sistema mitocondriale (costituito da organelli intracellulari deputati principalmente alla produzione energetica e alla regolazione dello stress ossidativo, fondamentali per la sopravvivenza cellulare).
Ad oggi quattro geni sembrano chiaramente implicati in parkinsonismo a trasmissione autosomica dominante: il gene SNCA (PARK1-PARK4), il gene LRRK2 (PARK8), il gene VPS35 (PARK17) e il gene EIF4G1 (PARK18).
Mutazioni sul gene dell’alfa-sinucleina sono molto rare e consistono in mutazioni puntiformi e duplicazioni o triplicazioni dell’intero gene SNCA. Se da una parte la duplicazione del gene è responsabile di un fenotipo indistinguibile dalla MP idiopatica, la triplicazione si associa ad un esordio più precoce (anche nella quarta decade), progressione molto rapida e frequente associazione con deterioramento cognitivo, disturbi autonomici e psichiatrici.
Al contrario di SNCA, il gene LRRK2 è risultato frequentemente mutato nei pazienti con parkinsonismo. In particolare la mutazione G2019S rappresenta al momento la causa genetica più frequente di parkinsonismo a livello mondiale, pur con frequenza variabile in popolazioni diverse. Altre mutazioni del gene LRRK2 sono estremamente più rare. Il quadro clinico è sostanzialmente indistinguibile dalla MP idiopatica. L’età di esordio è molto variabile, con un ampio intervallo tra la quarta e l’ottava decade di vita. Il parkinsonismo monogenico dovuto a mutazioni di LRRK2 ha una trasmissione a penetranza incompleta; pertanto, la maggior parte delle persone portatrici della mutazione non sviluppano la malattia.
Ancora pochi sono i dati disponibili per i geni VPS35 e EIF4G1, descritti per la prima volta pochi anni fa. Mutazioni a carico di questi geni sono comunque una causa molto rara di parkinsonismo, con frequenza stimata rispettivamente dello 0,1% e 0,02-0,2%. Le caratteristiche del quadro clinico sono molto simili a quelle della MP idiopatica con esordio dei sintomi in età adulta.
Al contrario delle forme dominanti, quelle a trasmissione recessiva in genere provocano un parkinsonismo ad esordio giovanile tipicamente prima dei 40 anni anche se sono state trovate mutazioni in pazienti con insorgenza di malattia più tardiva. I tre geni finora identificati sono: il gene parkina, il gene DJ1 e il gene PINK1.
Il gene parkina è stato il primo ad essere identificato, circa 20 anni fa, dallo studio di numerose famiglie consanguinee giapponesi affette da una forma precoce di parkinsonismo. Nel tempo sono poi state identificate numerose mutazioni distribuite lungo tutto il gene, ritenute responsabili di quasi la metà dei casi familiari e di circa il 10-15% dei casi sporadici di parkinsonismo ad esordio precoce. Le manifestazioni cliniche si differenziano spesso dalla MP idiopatica per la presenza di caratteristiche fenotipiche aggiuntive: accentuazione dei riflessi osteotendinei e distonia dell’arto inferiore all’esordio. Il decorso è tipicamente molto lento. La risposta alla levodopa è eccellente, con sviluppo frequente e precoce di fluttuazioni motorie e discinesie.
La frequenza di mutazioni del gene DJ1 è, invece, di gran lunga inferiore, avvicinandosi all’1%, sia nei casi familiari che sporadici. Le caratteristiche fenotipiche più frequenti comprendono: esordio molto precoce di malattia, lenta progressione, caratteristiche motorie tipiche. In alcuni casi sono stati descritti sintomi psichiatrici, con episodi psicotici.
Il terzo gene implicato in parkinsonismo a trasmissione autosomica recessiva è il gene PINK1. Il quadro clinico è simile a quello della malattia idiopatica, con insorgenza tardiva e rara associazione con caratteristiche cliniche atipiche.
Meritano infine un cenno i fattori di rischio genetici per MP, cioè le varianti genetiche (comprensive di varianti polimorfiche e mutazioni in eterozigosi in geni solitamente non causativi di parkinsonismo) non sufficienti a causare la malattia ma in grado di incrementarne notevolmente il rischio (anche fino a 5-6 volte in più rispetto ai non portatori).
FATTORI AMBIENTALI
L’ipotesi che agenti patogeni esterni possano penetrare nell’organismo e diffondersi nel sistema nervoso, fino a causare i sintomi motori e non-motori della malattia stimola la ricerca ormai da decenni. Sebbene un simile agente non sia stato ancora identificato, sono molti i fattori ambientali la cui esposizione è stata associata alla MP. Tra questi vanno ricordati i pesticidi, come il rotenone e il paraquat, e i metalli, tra cui ferro e manganese.
PESTICIDI
Un’associazione tra MP e vita rurale, è stata dimostrata in diversi studi epidemiologici. Successive ricerche hanno confermato che i pesticidi sono in grado di indurre i fenomeni neuropatologici tipici della MP (Int. J. Environ. Res. Public Health 2016). Tra i pesticidi sono compresi una serie di composti utilizzati nel controllo della proliferazione di insetti, piante e funghi. L’esposizione può avvenire attraverso l’ingestione di residui di pesticidi, ad esempio negli alimenti o nell’acqua potabile, oppure attraverso l’utilizzo professionale. La valutazione dell’esposizione professionale è estremamente complessa, considerata la variabilità delle misure protettive, il dosaggio e le eventuali combinazioni di sostanze.
Tra i vari tossici, il rotenone, un insetticida di derivazione naturale, comunemente utilizzato nel controllo della proliferazione dei pesci nei bacini idrici, è stato notoriamente associato al rischio di sviluppare MP. Proprio a causa della sua origine organica, è stato a lungo considerato non tossico e addirittura sicuro per l’uomo. Tuttavia costituisce una tossina mitocondriale ed è in grado di determinare fenomeni di neurodegenerazione a carico di neuroni dopaminergici e non, inducendo un parkinsonismo responsivo alla levodopa.
Anche il paraquat, un fungicida spesso utilizzato in combinazione con altre sostanze, è stato correlato allo sviluppo di MP. La sua struttura chimica è molto simile a quella del metabolita attivo dell’MPTP (1-metil 4-fenil 1,2,3,6-tetraidro-piridina), una sostanza tossica presente nell’eroina sintetica, oggi utilizzata nei modelli sperimentali di MP. L’esposizione cronica determina una progressiva degenerazione dei neuroni nigrostriatali, tramite meccanismi di stress ossidativo e formazione di radicali liberi.
Secondo alcuni autori, inoltre, un’esposizione a questa sostanza in epoca prenatale, potrebbe interferire con il corretto sviluppo del sistema dopaminergico nigrostriatale e successivamente accrescere la suscettibilità ad ulteriori insulti neurotossici nel corso della vita.
Altre sostanze la cui esposizione è stata associata al rischio di sviluppo di parkinsonismo sono i pesticidi organoclorurati, diffusamente utilizzati tra gli anni ‘40 e ‘70 in agricoltura e nel controllo della proliferazione delle zanzare. Si tratta di composti lipofilici che possono essere facilmente assorbiti attraverso la pelle. Queste sostanze, sono in grado di indurre morte cellulare nella substantia nigra, tramite meccanismi di stress ossidativo e alterando l’omeostasi del calcio delle cellule dopaminergiche.
METALLI
L’uomo è esposto continuamente a metalli attraverso varie fonti (dieta, esposizione occupazionale, ecc). Molti di questi sono minerali essenziali e sono fondamentali per la salute, tuttavia concentrazioni eccessive di specifiche sostanze possono essere patologiche. In particolare, l’esposizione a ferro e manganese è stata associata ad un aumentato rischio di parkinsonismo.
I neuroni della sostanza nera contengono neuromelanina, che legandosi al ferro può produrre radicali liberi, determinando perossidazione lipidica che costituisce una tappa iniziale della morte cellulare. Il ferro inoltre promuove l’auto-ossidazione della dopamina, inducendo un ulteriore rilascio di radicali liberi. Studi anatomopatologici hanno mostrato un incremento delle concentrazioni di ferro nella sostanza nera di pazienti affetti da MP, tuttavia non è ancora chiaro se l’accumulo del ferro preceda il danno a carico della sostanza nera o piuttosto sia una conseguenza della degenerazione neuronale.
Sebbene anche il manganese sia una sostanza tossica per i nuclei della base, un’associazione con la MP rimane incerta. La sua esposizione coinvolge la lavorazione dell’acciaio, la fabbricazione delle batterie, l’utilizzo endovenoso di droghe sintetiche e la nutrizione parenterale cronica, e causa una particolare forma di parkinsonismo non responsiva al trattamento con levodopa (Kwakye GF et al., Environ. Res. Public Health 2015).
Il manganese determina disfunzione mitocondriale nel nucleo pallido, inducendo formazione di specie altamente reattive dell’ossigeno; inoltre inibisce il trasporto del glutammato determinandone un incremento dei livelli intracellulari.
In definitiva, sebbene i rischi correlati all’esposizione a sostanze tossiche siano stati diffusamente studiati negli anni, le conoscenze acquisite fino ad aggi non sono sufficienti a dimostrare una inequivocabile associazione con la MP. La complessità dell’argomento ha posto agli studiosi numerose limitazioni. Nel valutare il rischio, infatti, sarebbe necessario: chiarire la durata di esposizione sufficiente ad innescare le alterazioni neuropatologiche; comprendere gli effetti sinergici di molteplici sostanze; indagare l’interazione tra fattori ambientali e predisposizione genetica ed infine individuare le porte d’accesso all’organismo, le modalità di diffusione al sistema dopaminergico e ad altri sistemi neurotrasmettitoriali.
IPOTESI PATOGENETICHE RECENTI
NEUROINFIAMMAZIONE
Sono ormai numerosi gli studi effettuati sia post-mortem, su tessuto cerebrale di pazienti affetti, che in vivo, su biomarcatori, che dimostrano come la neuroinfiammazione costituisca una caratteristica saliente della MP. Sebbene apparentemente non si tratti di uno dei “trigger” iniziali, sembra possa offrire un contributo essenziale alla sua patogenesi.
In particolare, è stato osservato che neuroni catecolaminergici nel tessuto cerebrale di pazienti con MP, così come neuroni dopaminergici in colture cellulari, esposti a cellule microgliali attivate o alla levodopa, hanno la tendenza ad esprimere molecole MHC di classe I, e a presentare antigeni ai linfociti T con conseguente innesco di meccanismi citotossici.
Altri elementi a supporto di tale ipotesi derivano dal fatto che alcuni geni associati al rischio di sviluppare MP, come ad esempio LRRK2, codificano per proteine coinvolte nelle risposte immunitarie (Ma B et al., Hum. Mol. Genet. 2016).
Inoltre, evidenze provenienti sia da studi su pazienti che su modelli animali hanno dimostrato che i fenomeni di aggregazione dell’alfa-sinucleina, sono in grado di indurre immunità innata e adattiva e che la stessa neuroinfiammazione può contribuire al “misfolding” dell’alfa-sinucleina, creando, in sostanza, un circolo vizioso.
L’innesco di tali fenomeni infiammatori a carico del sistema olfattivo o dell’apparato gastroenterico, potrebbe determinare un iniziale alterato ripiegamento dell’alfa-sinucleina, sufficiente a saturare i normali meccanismi di degradazione già nelle fasi prodromiche di malattia. Esperimenti effettuati su topi con over-espressione di SNCA hanno mostrato un ruolo del microbioma intestinale nell’attivazione della microglia e nella formazione di aggregati di alfa-sinucleina.
Sebbene questa ipotesi sia altamente suggestiva, sono necessarie conoscenze più approfondite sull’attivazione di una risposta immunitaria anomala e prolungata a carico del sistema nervoso. In contrapposizione a tale ipotesi, infatti, va sottolineato che le cellule della microglia sono in grado di fagocitare e degradare gli aggregati di alfa-sinucleina e che alcune immunoterapie in fase di sperimentazione, si fondano sulla possibilità di incrementare la clearance di alfa-sinucleina inducendo una risposta immune anticorpo mediata (George S & Brundin P, J. Parkinsons Dis. 2015).
IPOTESI PRIONICA
Una delle più recenti ipotesi eziopatogenetiche suggerisce un comportamento di tipo prionico dell’alfa-sinucleina. Nello specifico, la sua propagazione giocherebbe un ruolo fondamentale nel progressivo peggioramento dei sintomi e nel graduale coinvolgimento di sistemi funzionali con l’avanzare della malattia.
Nel 2008, un importante contributo all’ipotesi prionica veniva fornito da uno studio anatomopatologico eseguito su tre soggetti che avevano sofferto di MP e che erano stati sottoposti in vita a trapianto di neuroni fetali. Il riscontro di corpi di Lewy nei neuroni fetali trapiantati suggeriva che aggregati di alfa-sinucleina si fossero diffusi anche in tali neuroni, inizialmente sani, innescando ulteriore aggregazione di proteine endogene.
Numerosi studi in vitro hanno indagato il comportamento simil-prionico di alfa-sinucleina, confermando la possibilità della proteina di legarsi alla superficie di varie cellule in coltura, interagire con proteine di membrana, essere internalizzata e trasportata al compartimento lisosomiale, passare nello spazio intersinaptico e quindi in altri neuroni o astrociti. Una volta internalizzata nel citosol dei neuroni vicini sarebbe a sua volta in grado di innescare l’aggregazione dell’alfa-sinucleina citosolica endogena.
Anche lavori su modelli animali hanno confermato la capacità dell’alfa-sinucleina di trasferirsi tra diversi neuroni ed hanno dimostrato la possibilità di propagazione tra regioni distanti del sistema nervoso partendo dal bulbo olfattivo o dalla parete intestinale. La propagazione dai siti di ingresso, relativamente lenta, seguirebbe specifici percorsi la cui integrità rappresenterebbe una “conditio sine qua non” così come la presenza di alfa-sinucleina endogena.
È possibile che “misfolding” e aggregazione dell’alfa-sinucleina siano eventi stocastici promossi in certe condizioni (insulti tossici, infiammazione, stress ossidativo); normalmente i neuroni sarebbero in grado di eliminare questi aggregati, ma è possibile che in rare occasioni i meccanismi di proteostasi falliscano. Mutazioni puntiformi del gene SNCA sono in grado di alterare il numero di possibili conformazioni dell’alfa-sinucleina con conseguenze sulla resistenza e la concentrazione intracellulare. Duplicazioni e triplicazioni, allo stesso modo, sono in grado di incrementare la durata e la concentrazione intracellulare delle conformazioni con maggiore propensione all’aggregazione. Fattori ambientali e genetici diversi da SNCA possono inoltre alterare il rischio di aggregazione; infezioni virali, aumento del calcio, stress ossidativo, disfunzione mitocondriale ed infiammazione sarebbero in grado di indurre aggregazione ed accumulo di alfa-sinucleina.
È ampiamente riportato che l’efficacia di chaperoni (molecole accompagnatrici) e del sistema ubiquitina-proteasoma nel mantenimento della proteostasi, così come l’efficacia del sistema lisosomiale nel rimuovere l’alfa-sinucleina “misfolded”, si riducano con l’età: quest’osservazione è di particolare interesse considerando che l’invecchiamento costituisce ad oggi il principale fattore di rischio per MP idiopatica. A proposito dei meccanismi di clearance proteica, va sottolineato inoltre che la mutazione in eterozigosi nel gene GBA (codificante per enzima lisosomiale glucocerebrosidasi) è associata con incrementato rischio di MP: una ridotta funzione del sistema autofagico lisosomiale potrebbe favorire l’assemblaggio di alfa-sinucleina.
I bulbi olfattivi e l’intestino rappresentano aree, per motivi anatomici, particolarmente esposte ad insulti esogeni. L’aggregazione potrebbe essere innescata in queste aree per poi diffondere con modalità prionica in altre regioni del sistema nervoso. Gli studi anatomopatologici trasversali su cui al momento si basa questa teoria non sono tuttavia in grado di precisare i tempi e le modalità di propagazione.
Il fatto che l’alfa-sinucleina possa formare aggregati con caratteristiche strutturali distinte lascia ipotizzare che le varie conformazioni possano spiegare i diversi comportamenti clinicopatologici che caratterizzano ad esempio la Demenza a corpi di Lewy (DLB), l’Atrofia Multisistemica (MSA) e la MP. Sarebbero, infatti, differenti il tempo di assemblaggio, la resistenza ai meccanismi di degradazione e le interazioni molecolari. Questo spiegherebbe anche il perché gli aggregati di alfa-sinucleina si riscontrano principalmente negli oligodendrociti in MSA e nei neuroni in MP e DLB. Le differenti manifestazioni cliniche, d’altra parte, potrebbero essere collegate ad un differente iniziale sito di innesco della patologia (ad es. intestino oppure sistema olfattivo) (Brundin P & Melki R, J. Neurosci. 2017).
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