Epidemiologia della Malattia di Parkinson
Alessandra Nicoletti, Mario Zappia
Dipartimento di Scienze Mediche, Chirurgiche e Tecnologie Avanzate “G.F. Ingrassia“, Sezione di Neuroscienze, Università degli Studi Catania
PREVALENZA ED INCIDENZA
Le malattie neurodegenerative sono patologie croniche ad evoluzione progressiva età-correlate, la cui prevalenza ed incidenza è destinata ad aumentare quale conseguenza del progressivo invecchiamento della popolazione. Secondo un recente studio il numero di soggetti affetti da Malattia di Parkinson (MP) è progressivamente aumentato passando da 2,5 milioni nel 1990 a 6,1 nel 2016, mentre i casi attesi nel 2030 sarebbero compresi tra 8,7 e 9,3 milioni (GBD 2016 Parkinson’s Disease Collaborators, Lancet Neurol 2018). Il tasso di prevalenza medio è di 315 casi per 100.000 persone ed aumenta gradualmente con l’età fino ad un picco massimo di 1.903/100.000 nei soggetti con più di 80 anni (Pringsheim T et al., Mov Disord. 2014).
Nei paesi occidentali il tasso d’incidenza medio annuale è di 14 casi per 100.000 persone, ma raggiunge i 160 casi per 100.000 nella popolazione con più di 65 anni con un rapporto maschi/femmine pari a 1,49. Stime tendenzialmente più basse sono riportate nelle popolazioni asiatiche con tassi di incidenza compresi tra 6,7 e 8,7/100.000 (Wirdefeldt K et al., Eur J Neurol 2011).
Un recente studio condotto nell’Olmsted County in Minnesota ha dimostrato un aumento dell’incidenza di circa il 50% negli ultimi 30 anni. Sebbene un trend temporale sia stato osservato anche in altre aree geografiche quali la Finlandia e Taiwan, studi condotti nel Regno Unito ed in Olanda hanno invece dimostrato una possibile riduzione del rischio negli anni (Rocca WA, Mov Disord. 2018). Tali differenze possono essere in parte attribuibili alla diversa metodologia adottata negli studi epidemiologici, ma è possibile siano determinate anche da una differente distribuzione dei fattori di rischio e/o protettivi associati alla MP nelle diverse popolazioni. Alla luce di tali dati l’esistenza di un trend temporale rimane ad oggi dibattuta (Rocca WA, Mov Disord. 2018).
FATTORI DI RISCHIO E FATTORI PROTETTIVI
In analogia ad altre malattie neurodegenerative, la MP è considerata una malattia ad eziologia multifattoriale dovuta ad una complessa interazione tra fattori genetici ed ambientali. L’identificazione di fattori di rischio o protettivi rappresenta un elemento importante non solo per la comprensione dei possibili meccanismi patogenetici, ma anche per lo sviluppo di potenziali molecole neuroprotettive. Studi epidemiologici indicano che l’esposizione protratta a uno o più fattori ambientali e/o occupazionali, così come alcuni stili di vita possono aumentare o ridurre il rischio d’insorgenza della malattia (Ascherio A et al., Lancet Neurol 2016).
1) FATTORI DI RISCHIO
Alcuni metalli (Al, Cu, Fe, Hg, Mn, Pb, Zn) (Cicero CE et al., Environ Res. 2017), prodotti chimici industriali (idrocarburi solventi) (Pezzoli G, Neurology 2013) ed i pesticidi, sono sostanze potenzialmente neurotossiche e diversi studi suggeriscono un aumento del rischio di sviluppare la MP a seguito dell’esposizione a tali sostanze, sebbene evidenze consistenti in letteratura riguardino soprattutto l’esposizione ai pesticidi.
1.1) PESTICIDI
I pesticidi rappresentano un insieme di sostanze classificate sulla base dell’organismo target o del loro utilizzo come insetticidi, erbicidi, fungicidi o fumiganti. L’esposizione avviene attraverso l’assunzione di acqua e cibo contaminato, per contatto cutaneo o attraverso l’inalazione diretta. L’ipotesi che l’esposizione a pesticidi ed altri agenti chimici possa essere associata ad un maggiore rischio di MP nasce dalla scoperta dell’effetto neurotossico dell’MPTP (1-metil 4-fenil 1,2,3,6-tetraidro-piridina), composto secondario che si forma durante la sintesi della meperidina. L’agente neurotossico è un metabolita dell’MPTP e cioè l’MPP+ (1-metil 4-fenil-piridina) che si forma per ossidazione dell’MPTP ad opera della MAO-B e che possiede una struttura simile all’erbicida Paraquat. L’MPP+, sfruttando il carrier della dopamina, entra nelle cellule dopaminergiche della substantia nigra provocandone la morte attraverso l’inibizione della respirazione mitocondriale. Diversi studi analitici sia retrospettivi che prospettici hanno dimostrato un aumento del rischio di sviluppare la MP nei soggetti esposti a diversi pesticidi. Secondo una recente metanalisi in cui sono stati inclusi 56 studi, di cui 11 di coorte o nested case-control study, l’esposizione occupazionale ai pesticidi determinerebbe un aumento del rischio di malattia di circa due volte (pooled RR 1.56; 95% CI 1.37-1.77) (Breckenridge CB et al., PLoS ONE 2016). A conferma di tale ipotesi molti studi hanno inoltre dimostrato un aumento del rischio di MP nei soggetti residenti in aree rurali così come in particolari categorie occupazionali quali gli agricoltori, probabilmente a causa di una maggiore esposizione a vari composti chimici comunemente usati in tale ambito (Breckenridge CB, PLoS ONE 2016).
1.2) TRAUMA CRANICO
Tra i fattori di rischio dibattuto resta ad oggi il possibile ruolo del trauma cranico. Il meccanismo alla base dell’associazione tra MP e trauma cranico sarebbe dato dalla rottura della barriera emato-encefalica, dall’infiammazione cronica con conseguente danno mitocondriale, dall’aumento del rilascio di glutammato e dall’accumulo di alfa-sinucleina (Ascherio A et al., Lancet Neurol 2016). Molti studi retrospettivi di tipo caso-controllo hanno indagato la possibile associazione tra trauma cranico e MP con risultati contradittori. Pochissimi sono invece gli studi prospettici ed in particolare secondo uno studio di coorte Danese il rischio di sviluppare la MP sarebbe massimo entro i primi tre mesi dopo il trauma cranico (RR 6.6 95% CI 4.4-9.9), ma si ridurrebbe via via per scomparire dopo 10 anni dall’evento. Pur essendo tali risultati confermati da uno studio di coorte Svedese, invero non è possibile escludere una “reverse causality”, cioè un maggiore rischio di trauma cranico nei soggetti parkinsonini dovuto all’esordio subdolo della patologia, probabilmente già presente prima dell’evento traumatico (Ascherio A et al., Lancet Neurol 2016).
2) FATTORI PROTETTIVI
Tra i fattori protettivi, nicotina e caffeina rappresentano certamente quelli maggiormente studiati e quindi con un maggiore numero di evidenze che hanno dimostrato non solo una consistente associazione negativa indipendente dal disegno di studio, ma anche un effetto di tipo dose-dipendente.
2.1) FUMO
L’associazione tra fumo e MP rappresenta uno degli argomenti maggiormente studiati ed al tempo stesso il più controverso. Il ruolo protettivo del fumo è stato dimostrato da numerosissimi studi analitici sia di tipo caso-controllo che di coorte e tale dato è stato inoltre confermato da numerose metanalisi. In particolare una recente revisione sistematica (Breckenridge CB, PLoS ONE 2016) che ha incluso 33 studi analitici di cui 11 basati su casi incidenti (studi di coorte o nested case-control study) ha dimostrato una riduzione del 59% del rischio di MP nei fumatori (pooled RR 0.41; 95%CI 0.34-0.48). Tale effetto protettivo nella maggior parte degli studi considerati (73%) era di tipo dose-dipendente. Nell’ambito delle diverse sostanze contenute nel fumo di sigaretta il possibile ruolo neuroprotettivo sarebbe verosimilmente attribuibile alla nicotina. Tale ipotesi è supportata da diverse evidenze quali la presenza dei recettori nicotinici dell’acetilcolina nel sistema nigrostriatale, la capacità della nicotina di determinare un aumento del rilascio di dopamina striatale, ed infine l’effetto protettivo della nicotina nei confronti di agenti neurotossici quali l’MPTP, effetto dimostrato non solo da studi in vitro ma anche in vivo su diversi modelli animali (Ascherio A et al., Lancet Neurol 2016). Non ancora disponibili sono i risultati di uno studio multicentrico di fase II sull’effetto della nicotina sulla progressione di malattia (Disease-modifying Potential of Transdermal NICotine in Early Parkinson’s Disease (NIC-PD) NCT01560754), mentre non vi sono evidenze sufficienti sul possibile effetto sintomatico antiparkinsoniano valutato solo da pochi studi e su piccoli campioni (Ma C et al., Transl Neurodegener. 2017). Alla luce di tali dati, secondo i criteri di Bradford Hill (Hill AB, Proc R Soc Med. 1965), esisterebbero quindi numerosi elementi a supporto della possibile relazione causale tra fumo e MP, quali la concordanza dei risultati tra gli studi, la forza dell’associazione, la relazione di tipo dose-dipendente sia in termini di durata che di numero si sigarette ed infine la dimostrazione di un possibile effetto protettivo nel modello animale. Tuttavia diverse sono state le ipotesi alternative avanzate al fine di confutare tale associazione e tra queste dibattuto è il ruolo della cosiddetta “personalità parkinsoniana”. L’esistenza di una personalità peculiare nei soggetti affetti da MP è stata più volte confermata nel corso degli anni da diversi studi che, indipendentemente dagli strumenti e dai modelli utilizzati, hanno descritto i soggetti parkinsoniani come caratterizzati da particolare laboriosità, inflessibilità, puntualità, prudenza e mancanza di ricerca della novità. Le suddette caratteristiche sarebbero peraltro sovrapponibili al disturbo di personalità ossessivo-compulsivo riscontrato in circa il 40% dei pazienti con MP già in fase iniziale di malattia (Nicoletti A et al, PLoS ONE 2013). Tale disturbo è infatti definito dal DSM come un modello pervasivo di preoccupazione per l’ordine, perfezionismo, e controllo mentale e interpersonale, a spese di flessibilità, apertura ed efficienza. Tali caratteristiche renderebbero i soggetti parkinsoniani meno inclini ad abitudini voluttuarie quali fumo, consumo di caffè ed alcool, spiegando del tutto o in parte l’associazione inversa consistentemente riportata dagli studi analitici.
2.2) CAFFÈ E CAFFEINA
Alcune abitudini alimentari, tra le quali il consumo di caffè, si associano ad un ridotto rischio di sviluppare la MP. Molteplici studi analitici hanno dimostrato il ruolo protettivo della caffeina, dato confermato anche da una metanalisi basata solo su studi prospettici di coorte, che ha evidenziato una riduzione di circa il 30% del rischio di malattia tra i soggetti esposti (pooled OR 0,67 95%CI 0.69-0.82) con un effetto di tipo dose-dipendente (Costa J et al., Alzheimers Dis. 2010). Tale effetto tuttavia sarebbe maggiore negli uomini rispetto alle donne probabilmente a causa di una possibile interazione con la terapia ormonale sostitutiva postmenopausa (Ascherio A et al., Lancet Neurol 2016). La caffeina è un antagonista del recettore A2A dell’adenosina e l’effetto neuroprotettivo sarebbe mediato proprio dal blocco di tali recettori, come documentato da studi condotti sul modello animale (Ascherio A et al., Lancet Neurol 2016). È stata inoltre ampiamente dimostrata anche un’efficacia sintomatica antiparkinsoniana da parte di antagonisti selettivi del recettore A2A dell’adenosina come l’istradefillina. Studi sperimentali sul modello animale hanno infatti evidenziato l’efficacia dell’istradefillina nel miglioramento della disabilità motoria, dato successivamente confermato anche da studi di fase II e fase III che hanno dimostrato una significativa riduzione del tempo in OFF (Tao Y et al., Cell Biochem Biophys. 2015). Evidenze di letteratura suggeriscono inoltre sia un possibile ruolo neuroprotettivo della caffeina con una più lenta progressione di malattia nei soggetti esposti ad un maggiore consumo (Moccia M et al., Parkinsonism Relat Disord. 2016), sia un possibile effetto di tipo anti-discinetico (Nicoletti A et al., Mov Disord. 2015).
2.3) ACIDO URICO
Nell’ambito dei fattori protettivi, suggestivo sembra il ruolo dell’acido urico. L’acido urico è il prodotto finale del metabolismo delle purine. Nell’uomo l’acido urico è assunto in maniera molto ridotta con la dieta e per la maggior parte è un prodotto endogeno della degradazione delle basi puriniche. L’acido urico è un potente antiossidante ed evidenze sperimentali in vitro ed in vivo hanno dimostrato un’azione neuroprotettiva nei confronti della degenerazione dei neuroni dopaminergici. Considerato il ruolo centrale dello stress ossidativo nella MP, è stato dunque ipotizzato che alte concentrazioni di acido urico potessero associarsi ad un rischio più basso di malattia. Tale ipotesi è stata supportata da diverse evidenze epidemiologiche. Il primo studio di coorte a dimostrare un’associazione inversa tra livelli di acido urico e MP è stato l’Honolulu Heart Program nel 1996 in cui alti livelli di acido urico si associavano ad una riduzione del 40% del rischio di malattia. Tale osservazione è stata in seguito confermata sia dal “Rotterdam study” che dalla coorte “Health Professionals Follow-up Study” in cui alti livelli di acido urico si associavano ad una riduzione del rischio rispettivamente del 30% e del 55%. Ad oggi diversi studi prospettici di coorte hanno confermato il ruolo protettivo di alte concentrazioni di acido urico soprattutto nel sesso maschile, e tale associazione è stata confermata anche da diverse metanalisi (Ascherio A et al., Lancet Neurol 2016). Tuttavia va ricordato che la concentrazione di acido urico non dipende esclusivamente da fattori dietetici, ma anche dall’omeostasi dell’urato che è regolata da un insieme complesso di trasportatori a livello delle cellule epiteliali del rene e dell’intestino. Studi in vitro ed in vivo hanno dimostrato come diversi polimorfismi di geni codificanti per proteine coinvolte nell’omeostasi dell’urato possano determinare disturbi del suo metabolismo con conseguente ipouricemia o iperuricemia. In particolare la proteina SLC2A9 rappresenta una dei principali trasportatori dell’acido urico e varianti polimorfiche del gene SLC2A9 possono influenzare i livelli di acido urico sierico. Diversi studi hanno indagato la possibile associazione tra varianti polimorfiche del gene SLC2A9 e la MP, ma i dati disponibili non sono ad oggi univoci (Ascherio A et al., Lancet Neurol 2016). Alla luce delle evidenze epidemiologiche il possibile ruolo dell’acido urico sulla progressione di malattia è stato valutato in due studi prospettici (PRECEPT e DATATOP). Entrambi gli studi, sia singolarmente che in una pooled analysis, hanno dimostrato un ridotta progressione in rapporto ad i livelli di urati, con un effetto ancora una volta più marcato negli uomini (Ascherio A et al., Lancet Neurol 2016). Le suddette evidenze epidemiologiche e sperimentali hanno aperto possibili scenari terapeutici e a tale scopo è stato valutato il potenziale effetto protettivo dell’inosina sulla progressione di malattia. Xantina e ipoxantina rappresentano nell’uomo gli immediati precursori dell’urato e, a loro volta, derivano dalla degradazione dell’inosina (Ascherio A et al., Lancet Neurol 2016). Studi clinici di fase II hanno dimostrato che la somministrazione d’inosina è ben tollerata ed è efficace nell’aumentare i livelli liquorali e sierici di acido urico in pazienti affetti da MP in fase iniziale. In atto non sono ancora disponibili i dati relativi ad uno studio di fase III (NCT02642393) sul possibile effetto dell’inosina sulla progressione della malattia in pazienti affetti da MP in fase iniziale.
2.4) ALTRI FATTORI
Diversi sono gli studi epidemiologici che hanno valutato il possibile effetto protettivo degli anti-infiammatori non steroidei (FANS). Il processo degenerativo nella MP si accompagna a un’attivazione della microglia e su quest’osservazione si basa l’ipotesi secondo cui gli anti-infiammatori potrebbero svolgere un ruolo protettivo sopprimendo le risposte pro-infiammatorie. Tuttavia i dati ad oggi disponibili sono contraddittori ed una recente metanalisi confermerebbe un effetto protettivo significativo solo per l’ibuprofene, ma non per gli altri FANS (Ascherio A et al., Lancet Neurol 2016). Acclarato sembra invece essere il ruolo dell’attività fisica moderata o intensa nel ridurre il rischio di MP, associazione inversa confermata da diversi studi di coorte e da studi sperimentali sul modello animale. Diversi meccanismi potrebbero essere alla base dell’effetto neuroprotettivo quali l’incremento dei livelli di acido urico, l’aumento del rilascio di fattori neurotropici o la regolazione del turnover della dopamina (Ascherio A et al., Lancet Neurol 2016). A fronte di un elevato numero di studi, resta ancora dibattuto invece il possibile ruolo di diversi fattori quali l’alcool, gli estrogeni, le statine, l’esposizione a metalli (Cicero CE et al., Environ Res. 2017) e vari fattori dietetici. Sebbene tali fattori possano modulare il rischio di sviluppare la MP i dati derivanti dagli studi epidemiologici sono in atto discordanti e non consentono di giungere a conclusioni certe.
CONCLUSIONI
Nell’ultima decade sono stati molteplici gli studi epidemiologici che hanno indagato la possibile associazione di svariati fattori sia ambientali che clinici con la MP. Sebbene per nessuno di essi esistano al momento prove certe di causalità, i dati relativi ad alcuni fattori quali il consumo di caffè, gli alti livelli di acido urico, l’attività fisica e probabilmente l’esposizione al fumo, sembrano suggestivi di un reale effetto protettivo che a breve, per alcuni di essi, potrebbe essere confermato anche da studi clinici randomizzati. Nell’ambito delle malattie neurodegenerative l’identificazione di fattori protettivi rappresenta un elemento essenziale non solo per la comprensione dei possibili meccanismi patogenetici, ma anche per l’identificazione di potenziali biomarcatori e per lo sviluppo di nuove molecole neuroprotettive.
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