Depressione nella persona che invecchia: aspetti clinici e terapeutici
Renzo Rozzini¹ ² ³, Angelo Bianchetti¹ ² ⁴
1. Gruppo di Ricerca Geriatrica, Brescia | 2. Associazione Italiana di Psicogeriatria | 3. Dipartimento di Geriatria, Fondazione Poliambulanza Brescia 4. Dipartimento di Medicina e Riabilitazione, Istituto Clinico “Sant’Anna”, Brescia
INTRODUZIONE
Negli ultimi anni si è data crescente importanza al problema della depressione dell’anziano, per ragioni di tipo epidemiologico, per una maggiore sensibilità della classe medica verso i problemi della cronicità e sulla qualità della vita dei pazienti e, di conseguenza, anche sulla sofferenza depressiva degli anziani e per la disponibilità di farmaci sempre più maneggevoli ed efficace (Rozzini et al., Psicogeriatria 2015).
La sintomatologia depressiva può essere l’epifenomeno psichico di una condizione generale di inadeguatezza, di incompetenza psicologica, fisica, relazionale, socio-ambientale. Patologie croniche, sindromi da dolore cronico, recenti cambiamenti di vita e presenza di condizioni svantaggiose, la presenza di una salute giudicata scadente, e sintomi fisici inspiegabili si associano a depressione. La probabilità di un disturbo depressivo aumenta di circa 1,5 a 3,5 volte se uno qualsiasi di questi fattori è presente (Blazer, N Engl J Med. 1989). Questo spiega l’ampia variabilità sintomatologica, a sua volta secondaria alla variabilità dei fattori di rischio, le cui strette interconnessioni devono essere tenute in considerazione, e la conseguente difficoltà classificativa che ha spinto buona parte dei clinici a scegliere operativamente di considerare la depressione nel soggetto anziano come un continuum di malattia, che varia in severità e durata, piuttosto che una condizione inquadrabile in rigidi criteri diagnostici.
EPIDEMIOLOGIA
Dati recenti dicono che il 10% circa degli uomini e il 25% delle donne di ogni età soffrono di depressione (Jackson et al., The Lancet Respiratory Medicine 2014).
In generale il 2-6% della popolazione anziana soffre di depressione maggiore, che rappresenta la più grave manifestazione di disturbo dell’umore, con un’incidenza dello 0,15% l’anno. La prevalenza della diagnosi di depressione negli adulti ultra 65enni negli Stati Uniti è raddoppiata dal 1992 al 2005 passando dal 3% al 6%. La prevalenza annuale del disturbo depressivo maggiore negli Stati Uniti presenta marcate differenze per classe di età, sicché dai 18 ai 29 anni è tre volte superiore rispetto alla prevalenza negli ultrasessantenni. Il doppio delle donne rispetto agli uomini è colpito. Il rischio di manifestare depressione maggiore si aggira intorno allo 0,6-25% durante il corso della vita. Sia la prevalenza e l’incidenza di depressione maggiore raddoppia dopo 70-85 anni di età. Allo stesso modo, il numero di anziani con disturbo bipolare è in aumento, sia perché il numero assoluto di anziani è in aumento e, forse, perché anche la percentuale di persone anziane con questa malattia è in aumento anche se su questo dato non tutta la letteratura è concorde (Alexopoulos, Lancet 2005; Jackson et al., The Lancet Respiratory Medicine 2014; Taylor, N Engl J Med. 2014).
La depressione minore ha una prevalenza del 4-13%, mentre la distimia (DSM-5: Disturbo Depressivo Persistente), caratterizzata da sintomi depressivi a bassa intensità che durano 2 anni o più, si verifica in circa il 2% degli anziani. Una persona ultrasessantacinquenne ha la stessa probabilità (o lievemente inferiore) di avere sintomi depressivi clinicamente significativi rispetto ad una persona adulta (prevalenza 8-16%), ma una persona molto vecchia è particolarmente soggetta a questo disturbo. Un aumento della disabilità e del deficit cognitivo, un peggioramento della condizione socio-economica, e l’elevata percentuale di donne che sopravvivono alla morte del coniuge potrebbe spiegare questo pattern. La prevalenza del disturbo depressivo maggiore aumenta con l’aumentare della morbilità medica: la letteratura riporta una prevalenza del 5-10% nei pazienti affetti da patologia cronica che vivono al domicilio e fino al 37% dopo ospedalizzazione in ambiente di critical-care (Alexopoulos, Lancet 2005), (figura 1 e 2).
Nota: Definizione di sintomi depressivi gravi: quattro o più sintomi di una serie di otto sintomi depressivi della versione abbreviata del Centro di Studi.
Epidemiologici Depression Scale (CES-D), adattato dalla Health and Retirement Study. I dati si riferiscono ad una popolazione residente al proprio domicilio
(in istituzionalizzata). Fonte: Health and Retirement Study.
La prevalenza di sindromi depressive in età avanzata è più elevata nei setting medico-assistenziali che sul territorio. Il 10-12% dei pazienti ricoverati in ospedale soddisfano i criteri di depressione maggiore, mentre la prevalenza di depressione maggiore tra i pazienti nell’ambulatorio del medico di famiglia è del 6-9%. Inoltre, in questa popolazione il 6% soffre di depressione minore e il 10% di depressione subsindromica (Cherubini et al., J Nutr Health Aging 2012); più della metà dei pazienti che soffre di forme meno gravi di depressione rimane depresso un anno dopo la diagnosi. La prevalenza di depressione maggiore tra gli individui che vivono in RSA è del 12-14%, mentre il 15-35% di coloro che vivono in setting di lungo assistenza soffrono di depressione minore o di sintomi depressivi clinicamente significativi (Alexopoulos, Lancet 2005).
LA SPECIFICA VULNERABILITÀ DELL’ANZIANO
Tra i fattori fisiopatologici che sottendono la vulnerabilità alla depressione in età avanzata la letteratura riporta modificazioni cerebrali specifiche, correlate all’età, alle malattie e alla risposta stressante agli eventi avversi (tabella 1), (Rozzini et al., Critical Medicine Publishing 2007).
Numerosi studi hanno sottolineato la stretta relazione tra depressione e malattie fisiche; in altri è stato rilevato che nell’età adulta avanzata la disabilità è la più importante determinante sia dello sviluppo che del decorso della depressione (Rozzini et al., J Cross Cult Gerontol. 1991). Circa il 20-30% dei pazienti con una patologia somatica lamenta sintomi depressivi di entità più o meno rilevante; la prevalenza di depressione in pazienti con problemi medici è notevolmente superiore rispetto a quella della popolazione generale; per tale motivo non è infrequente che uno stato depressivo trattabile venga trascurato o che una malattia somatica in un soggetto depresso sia curata in modo non ottimale (Blazer, J Gerontol A Biol Sci Med Sci. 2003; Penninx et al., Arch Gen Psychiatry 1999).
Sintomi depressivi sono riscontrabili in un ampio numero di patologie acute e croniche; la presenza di uno stato depressivo clinicamente significativo è circa tre volte più elevata nei soggetti affetti da patologia somatica ad andamento cronico; è stato inoltre riscontrato che in seguito ad una patologia acuta (per esempio infarto del miocardio) circa la metà dei soggetti presenta un disturbo affettivo (Rozzini et al., Critical Medicine Publishing 2007; Vampini et al., Tundo, Elsevier 2008).
La relazione tra malattie e depressione è anche particolarmente rilevante per le patologie con un impatto diretto sulla disabilità.
La relazione tra sintomi depressivi e disabilità è molto complessa: generalmente infatti queste condizioni coesistono con le patologie croniche. La comorbilità che ne deriva (malattia-disabilità-depressione) contribuisce a creare controversie in ambito diagnostico e terapeutico. Non è infatti ancora chiaro se la depressione debba essere considerata come condizione primaria (causa di disabilità) o secondaria (conseguenza della disabilità) (Verhaak et al., J Affect Disord. 2014).
La variabilità sintomatologica, che sottostà alla difficoltà classificativa, è certamente frutto della variabilità dei fattori di rischio, le cui strette interconnessioni devono essere tenute in considerazione; la depressione esercita un effetto sommatorio con le malattie somatiche rispetto alla disabilità, mettendo in atto un meccanismo complesso di reciproche influenze che impone un’analisi accurata dei fenomeni ed una specifica conoscenza terapeutica per evitare che il paziente entri in un circolo vizioso, dal quale difficilmente riesce ad uscire (Rozzini et al., Arch Intern Med. 2001; Steffens et al., Arch Gen Psychiatry 2000).
La maggior parte degli autori è concorde nell’affermare che il benessere, la vitalità e la salute in generale abbiano una stretta connessione con le condizioni economiche e con l’organizzazione sociale, di gran lunga superiore rispetto all’inevitabilità biologica delle leggi dell’invecchiamento. I numerosi eventi vitali negativi che costellano l’ultima parte della vita rendono ragione, sul versante psicosociale, della maggiore prevalenza della depressione in questa fascia di età. Tra i fattori più importanti si annoverano la vedovanza, il sentimento di solitudine, la mancanza di supporto e di interazione sociale, le difficoltà finanziarie, la situazione abitativa, l’istituzionalizzazione. Viene riportata una significativa correlazione tra depressione e quasi tutti gli stressors sociali, i quali, accanto alle variabili relative alla salute e alla disabilità, rappresenterebbero un rischio o, quanto meno, un effetto modulante negativo.
FENOMENOLOGIA DELLA DEPRESSIONE NELL’ANZIANO
La depressione nell’anziano si può manifestare con molti aspetti presenti anche nelle forme depressive ad insorgenza in età adulto-giovanile. Tuttavia certi profili sintomatologici si modificano con l’aumentare dell’età e le caratteristiche della depressione dell’anziano variano in relazione all’eterogeneità della storia clinica e dello stato di salute somatica. La diagnosi di depressione franca è di solito agevole, ma il riconoscimento dei sintomi più lievi può essere difficile. La perdita di amici e persone care, l’ineludibile riduzione del network sociale col passare degli anni esitano in un diminuito coinvolgimento sociale, che è una caratteristica comune anche della depressione. Questi problemi, frequenti nella vecchiaia, sono spesso difficili da distinguere da sintomi depressivi. La sfida della corretta individuazione della depressione è resa problematica dal fatto che i pazienti depressi hanno profili sintomatologici meno netti rispetto a quelli che si rivolgono a centri specialistici, soprattutto perché la sintomatologia è meno grave o invalidante. Nel disturbo depressivo con remissione incompleta, i sintomi classici scompaiono e spesso vengono sostituiti da preoccupazioni ipocondriache subacute o croniche, da malumore con irritabilità. In altri pazienti la depressione può non essere vissuta in maniera consapevole: i pazienti affermano di essere malati fisicamente, lamentano stanchezza e dolori vari e diffusi. Spesso, inoltre, prevalgono difficoltà lavorative, funzionali e sociali.
Alcune persone diagnosticate come depresse in setting non specialistici potrebbero rientrare nei criteri per la distimia (DSM-5: Disturbo depressivo persistente) o disturbo di adattamento con umore depresso, altri avere sintomi depressivi di entità tale da non raggiungere la soglia per diagnosi di disturbo depressivo maggiore. Molti di questi potrebbero beneficiare di consulenza di sostegno o anche di un cambiamento dello stile di vita; in alcuni casi, come nelle depressioni sottosoglia di recente insorgenza, l’attesa vigile con un monitoraggio clinico ravvicinato potrebbe essere l’atteggiamento più appropriato.
QUADRI CLINICI: ALCUNI ELEMENTI DI SPECIFICITÀ DELL’ANZIANO
Il decorso della sintomatologia correlata al disturbo depressivo maggiore in genere non cambia con l’invecchiamento: è molto variabile, e va dalla persistenza senza remissione (periodo di 2 o più mesi in assenza di sintomi, oppure con la sola persistenza di uno o due sintomi di lieve entità) della sintomatologia depressiva, alla possibilità di vivere molti anni senza sintomi, o con pochi sintomi e di lieve rilevanza clinica, tra un episodio e l’altro. Per il trattamento è importante distinguere gli individui che presentano la riacutizzazione di malattia depressiva cronica da quelli i cui sintomi si sono sviluppati di recente. La cronicità dei sintomi depressivi è spesso spia di personalità predisponente, di ansia o di patologia da uso di sostanze; la cronicizzazione è favorita dalla presenza di sintomi residui e, a sua volta, diminuisce la probabilità che il trattamento sarà seguito da risoluzione completa dei sintomi. Per questi motivi è indispensabile chiedere alle persone che si presentano con sintomi depressivi quando è stato l’ultimo periodo di almeno 2 mesi durante i quali sono state del tutto prive di sintomi depressivi.
Per il 40% dei pazienti la guarigione abitualmente inizia entro 3 mesi dalla comparsa dei sintomi ed entro 1 anno per l’80% (Taylor, N Engl J Med. 2014).
L’insorgenza recente di sintomi depressivi (la non avvenuta cronicizzazione) è un forte predittore di recupero a breve termine; molti individui che sono stati depressi solo per pochi mesi possono aspettarsi di recuperare spontaneamente. Le caratteristiche associate a una minore probabilità di remissione, accanto alla durata dell’episodio attuale, includono la presenza di aspetti psicotici, l’ansia grave, i disturbi di personalità nonché la gravità dei sintomi.
Il rischio di recidiva diventa progressivamente più basso con l’aumentare del tempo di remissione. Il rischio è più elevato nelle persone il cui precedente episodio è stato grave, negli individui più giovani, e in individui che hanno già sperimentato episodi multipli. La presenza di sintomi depressivi residui, anche lievi, al di fuori dell’episodio acuto, è un potente predittore di recidiva. In molti casi il disturbo bipolare (sia di tipo I che, soprattutto, di tipo II) può esordire con uno o più episodi depressivi, e una parte consistente di persone che inizialmente sembrano avere disturbo depressivo maggiore si rivelerà, nel tempo, affetto da un disturbo bipolare. Ciò appare più probabile nei soggetti con esordio della malattia in adolescenza o nel post-partum, quelli con caratteristiche psicotiche e quelli con una storia familiare di disturbo bipolare. L’appartenenza della depressione allo spettro bipolare implica una diversa gestione farmacologica, finalizzata principalmente alla stabilizzazione a lungo termine.
I pazienti bipolari possono presentare, in età senile, un’evoluzione peggiorativa del disturbo, sia nel senso di un incremento della ciclicità che di quadri “misti”, caratterizzati cioè dalla commistione di sintomi (ipo)maniacali e depressivi. Di fatto, presentano un incremento della mortalità rispetto ai coetanei sani e richiedono frequenti ospedalizzazioni per cause sia mediche sia psichiatriche (Alexopoulos, Lancet 2005).
La depressione minore nelle persone anziane è associata a disabilità funzionale; circa il 25% dei pazienti che ne soffre sviluppa depressione maggiore entro 2 anni. In diversi pazienti anziani, una lunga fase depressiva subsindromica (che può durare anche fino a 3 anni) può precedere la depressione maggiore (Taylor, N Engl J Med. 2014).
La frequente coesistenza di alterazioni delle prestazioni cognitive nei soggetti anziani con sindromi depressive ha portato alla definizione di “pseudo demenza” depressiva. Il rapporto fra depressione e funzioni cognitive è molto complesso ed è trattato in modo esteso in altra parte di questo volume (Bianchetti et al., G Geront. 2014).
LA TERAPIA
La decisione di trattare un paziente anziano che presenta un episodio depressivo deve essere presa in base alle manifestazioni cliniche. Elementi decisivi per valutare la gravità di una depressione e quindi la necessità di un trattamento farmacologico, vengono considerati:
1. L’entità della deflessione timica e/o dell’anedonia
2. La comparsa di segni e sintomi biologici: disturbi del sonno, dell’appetito, astenia / adinamia.
3. Variazioni circadiane della sintomatologia con peggioramento al mattino
4. La presenza di agitazione o rallentamento psicomotorio
5. Una marcata riduzione del funzionamento psicosociale e dell’autonomia
6. Una durata dell’episodio di almeno 2 settimane
7. Sintomi psicotici concomitanti (Rozzini et al., Psicogeriatria 2015).
Sulla necessità di trattare un soggetto anziano con un quadro depressivo di significato clinico (depressione maggiore) vi è unanime consenso. Minori certezze, a causa dell’assenza di studi controllati, esistono invece sul trattamento dei disturbi depressivi lievi o sottosoglia, per i quali viene comunque sconsigliato l’uso routinario di antidepressivi. In particolare, nelle forme sottosoglia, o nelle depressioni “minori” di recente insorgenza, nelle quali non vi è prova di efficacia degli antidepressivi, viene consigliato un atteggiamento di “attesa vigile”, con interventi psicosociali, di supporto psicologico e di psicoeducazione rivolta ai pazienti e ai caregiver. Se dopo 4-6 settimane non vi è alcun segno di miglioramento e il paziente presenta elementi anamnestici, familiari o personali, di tipo affettivo o persistenza di stressors, buona pratica viene considerata quella di iniziare un trattamento con antidepressivi.
Il principale obiettivo del trattamento della depressione nell’anziano deve essere la risoluzione totale dei i sintomi della depressione. I sintomi residui, benché siano sotto la soglia di una della diagnosi categoriale, rappresentano infatti un fattore di rischio di cronicizzazione e predispongono all’insorgenza di malattie somatiche (Doraiswamy et al., Am J Geriatr Psychiatry 2001). I pazienti con sintomi residui tendono inoltre a guarire con maggiore difficoltà in caso di malattie somatiche.
La prevenzione delle recidive e della cronicizzazione è uno degli obiettivi primari del trattamento della depressione anche nel soggetto anziano. Inoltre, il ripristino della funzionalità fisica, sociale ed occupazionale (in senso lato) dell’anziano depresso rappresenta un obiettivo primario dei trattamenti.
Nella scelta di un trattamento farmacologico si deve tenere in considerazione la storia clinica del singolo paziente: una corretta anamnesi psicofarmacologica potrà individuare un antidepressivo al quale vi sia stata una risposta positiva in passato. In tal caso dovrebbe venire impiegato il medesimo farmaco, tranne in casi in cui siano subentrate, nel tempo, controindicazioni. La storia clinica può, analogamente, evidenziare intolleranze a uno o più antidepressivi. Sulla base delle evidenze scientifiche accumulate negli ultimi 30 anni, i farmaci antidepressivi che presentano un miglior rapporto rischio/beneficio, sia pur nell’ambito di una eterogeneità intra- e interclasse, sono i composti di II generazione. All’interno della gamma di questi nuovi composti la scelta dovrà basarsi, oltre che su una conoscenza delle caratteristiche delle singole molecole, sulla tipologia del paziente e sui cluster sintomatologici prevalenti (tabella 2).
Recenti metanalisi hanno documentato che i farmaci antidepressivi di composti di I e di II generazione sono superiori al placebo ed equivalenti tra di loro nell’indurre la remissione di episodi depressivi maggiori (Tedeschini et al., J Clin Psychiatry 2011; Calati et al., J Affect Disord. 2013; Kok et al., J Affect Disord. 2012).
I risultati degli RCT che documentano l’efficacia degli antidepressivi nella fase acuta della depressione dell’anziano riportano tassi di risposta variabili dal 50% al 70%, rispetto al 30% del placebo.
Dati piuttosto scarsi documentano come nell’anziano sintomi depressivi concomitanti con patologie internistiche o neurologiche possano essere trattati con beneficio.
Infine, la maggior parte degli studi clinici richiedono la presenza di depressione maggiore come criterio di inclusione; pertanto la quota rilevante di depressioni senili che presentano caratteristiche atipiche o sottosoglia non ha a tutt’oggi una valida documentazione scientifica che ne possa orientare il trattamento.
La scelta del farmaco antidepressivo deve basarsi, anche e soprattutto sul diverso profilo di tollerabilità e sicurezza e sulle possibili interazioni farmacologiche. È prassi comune evitare nell’anziano l’impiego di farmaci antidepressivi di vecchia generazione, quali i TCA, specie i composti aminici terziari (amitriptilina, clomipramina, imipramina, ecc.). Essi, infatti, presentano un quadro di collateralità significativo, complesso e solitamente persistente e verso il quale sono scarsi i fenomeni di tolleranza (Rozzini et al., Psicogeriatria 2015). L’orientamento nella terapia antidepressiva dell’anziano è quindi indirizzato verso l’impiego di molecole a più elevata tollerabilità, quali i farmaci di II generazione, in particolare gli SSRI e gli SNRI. La buona tollerabilità, associata al fatto che la maggior parte di questi composti può essere somministrato in monodose giornaliera, facilitando ulteriormente la compliance, rende tali classi di prima scelta nell’anziano (Alexopoulos, Lancet 2005).
Talora può essere utile una associazione temporanea con basse dosi di una benzamide sostituita, in specie quando il paziente si polarizza sulle turbe somatiche gastroenteriche o sull’iporessia come sinonimo di patologia o di fallimento della terapia.
Data la particolare sensibilità degli anziani agli effetti indesiderati degli antidepressivi, è opportuno seguire il principio generale che raccomanda di utilizzare all’inizio dosi basse e di incrementarle gradualmente dopo 4-7 giorni. Se tale prassi appare indispensabile nel caso di composti a basso indice terapeutico, come i TCA, viene consigliata anche nel caso degli antidepressivi di II generazione, come gli SSRI e gli SNRI, per i quali una titolazione graduale evita la comparsa di effetti indesiderati (es. nausea, sonnolenza, irritabilità), che compaiono prima dell’effetto terapeutico e che possono essere motivo di drop-out precoci. L’individualizzazione del dosaggio durante la fase acuta deve sempre avvenire nell’ambito della dose terapeutica indicata per ciascun farmaco antidepressivo.
Negli ultimi anni le evidenze scientifiche hanno portato in generale ad un prolungamento dei tempi di trattamento, specie in caso di recidive. Anche il dosaggio degli antidepressivi si è dimostrato importante per un’efficacia ottimale sul lungo termine.
In una metanalisi di 8 RCTs della durata compresa tra 2 e 3 anni, il trattamento continuativo della depressione negli anziani ha evidenziato una riduzione 28% nel rischio assoluto di ricaduta o recidiva (Kok et al., J Affect Disord. 2012).
È opinione condivisa che la durata del trattamento debba essere correlata al numero, alla durata e alla gravità degli episodi depressivi. Dopo la risoluzione quanto più completa dell’episodio depressivo, la terapia proseguirà con una fase cosiddetta di mantenimento, volta a prevenirne le recidive. In caso di un primo episodio depressivo, in assenza di precedenti anamnestici e di familiarità sarà indicato un trattamento per almeno un anno. Di solito vengono consigliati trattamenti di 2-3 anni se vi sono stati due episodi depressivi in età avanzata, mentre in caso vi siano stati 2 o più episodi depressivi, ma siano presenti anche fattori di rischio significativi (tentativi anticonservativi, stressors psicosociali, malattie somatiche croniche, grave disabilità, ecc.), la durata di trattamento prevista si allunga a 3 o più anni, o addirittura a tutta la vita. È importante sottolineare come durante il trattamento a lungo termine sia consigliato mantenere i dosaggi impiegati nella fase acuta, in quanto è stato dimostrato che una loro riduzione corrisponde ad una ridotta efficacia nella prevenzione delle ricadute (Katona, J. P. Feighner & W. F. Boyer Eds. 1996; Mitchell et al., Maturitas 2014).
CONCLUSIONI
La gestione del disturbo depressivo nel soggetto anziano si pone in un’area di elevata incertezza sia sul piano diagnostico, che su quello dell’interpretazione dei fenomeni di interazione fra variabili biologiche, storia personale, dimensione socio relazionale, eventi vitali, che su quello dell’approccio terapeutico.
Per far diagnosi e trattare il disturbo depressivo, oltre ai classici manuali diagnostici e terapeutici, occorre probabilmente saper richiamare in servizio un occhio e un orecchio interni che facciano entrare nel rapporto col soggetto ammalato la propria sensibilità anche extramedica, la propria cultura letteraria, musicale, artistica, l’esperienza umana (De Leo et al., Piccin 1994).
In questo modo si arriva alla costruzione di una vera relazione terapeutica, fondata sull’ascolto, sull’empatia, sul rispetto, sulla comunicazione, su di una clinica attenta e rispettosa delle dimensioni valoriali del paziente e del suo contesto.
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