Trattamento non farmacologico della Depressione: terapie psicosociali e psicologiche
Mario Luciano, Valeria Del Vecchio, Vincenzo Giallonardo, Luca Steardo Jr., Giuseppina Borriello, Benedetta Pocai, Micaela Savorani, Gaia Sampogna, Andrea Fiorillo
Dipartimento di Psichiatria, Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”, Napoli
INTRODUZIONE
La depressione maggiore rappresenta un disturbo mentale molto frequente nella popolazione generale, la cui incidenza e prevalenza sono aumentate molto rapidamente negli ultimi 10 anni. Si stima, infatti, che in Europa circa 30 milioni di persone soffrano di depressione che, tra l’altro, rappresenta la principale causa di disabilità al mondo (Vuorilehto et al., J Affect Disord 2016; Wittchen et al., Eur Neuropsychopharmacol 2011). La prevalenza lifetime della depressione maggiore è del 16% circa nella popolazione mondiale adulta (Kupfer et al., Lancet 2012), con una maggiore incidenza nel sesso femminile. Il rischio di sviluppare la depressione maggiore è aumentato da numerosi fattori psicosociali, come un basso livello socio-economico, povertà, disoccupazione, presenza di un disturbo fisico disabilitante e bassi livelli di istruzione (APA, 2010). Circa la metà dei pazienti presentano più di un episodio di malattia nel corso della vita e il rischio di ricorrenza di episodi depressivi è del 35%. I pazienti che hanno presentato almeno tre episodi depressivi nell’arco della vita, in assenza di un trattamento preventivo, hanno un rischio di ricadere del 100%. La presenza di un disturbo depressivo maggiore si associa a elevati costi personali e sociali, e a una riduzione significativa della qualità di vita, analogamente a quanto accade per molte patologie fisiche croniche, come il diabete mellito, l’asma, l’infarto del miocardio e l’ipertensione arteriosa (Kessler et al, Psychol Med 2003).
Nella maggior parte dei casi, in seguito a remissione sintomatologica, il funzionamento psicosociale dei pazienti affetti da depressione maggiore ritorna ai livelli premorbosi, sebbene nel 35% dei pazienti possono persistere sintomi depressivi sottosoglia, che contribuiscono alla disabilità associata alla patologia. Inoltre, il funzionamento psicosociale di questi pazienti è influenzato dalla presenza di numerose patologie fisiche in comorbidità, soprattutto cardiovascolari, metaboliche e infettive.
Considerati la prevalenza, il rischio di ricadute e gli elevati livelli di disabilità associati a questa patologia, negli ultimi anni sono stati compiuti notevoli sforzi per migliorare il trattamento a lungo termine della depressione (NICE, 2010; American Psychiatric Association, 2010; Cleare et al., J Psychopharmacol 2015; Kennedy et al., Can J Psychiatry 2009). Le principali linee-guida internazionali concordano sulla necessità di personalizzare i trattamenti sulla base delle caratteristiche socio-demografiche, cliniche e psicologiche dei singoli pazienti, nonché sulla necessità di adottare un approccio integrato che includa, oltre ai farmaci antidepressivi a dosaggi appropriati e per una durata adeguata, l’utilizzo di interventi psicologici e psicosociali che possano contribuire alla remissione sintomatologica, funzionale e personale dei pazienti (Gelenberg, J Clin Psychiatry 2010). In questo lavoro passeremo brevemente in rassegna gli interventi psicologici e psicosociali che si sono dimostrati efficaci per il trattamento della depressione maggiore e che sono attualmente consigliati dalle principali linee-guida internazionali.
LE PSICOTERAPIE
L’utilizzo della psicoterapia in pazienti affetti da depressione è attualmente fortemente raccomandato dalle principali linee-guida internazionali. La psicoterapia è indicata come trattamento esclusivo nelle depressioni di grado lieve o moderato, mentre è raccomandata in associazione al trattamento farmacologico nella depressione grave, soprattutto quando è presente ideazione suicidaria.
Gli elementi che possono orientare il clinico nella scelta del trattamento psicoterapico, da solo o in associazione al trattamento farmacologico, sono i seguenti: 1) fattori psicosociali stressanti; 2) conflitti intrapsichici; 3) difficoltà interpersonali; 4) comorbilità con disturbi di personalità. Inoltre, la scelta del tipo di psicoterapia da adottare dipende da altri fattori, come gli obiettivi della terapia, la risposta ottenuta a precedenti psicoterapie, la disponibilità di terapeuti addestrati all’utilizzo di specifiche tecniche psicoterapeutiche e le richieste del paziente. La psicoterapia dovrebbe rappresentare il trattamento di prima scelta quando la depressione insorge durante la gravidanza, o in donne che hanno programmato una gravidanza, e durante l’allattamento.
La durata e la frequenza degli appuntamenti che caratterizzano un trattamento efficace non è stata oggetto di rigorosi studi. La maggior parte delle evidenze disponibili depongono per una durata minima di 16-18 settimane di trattamento, con appuntamenti settimanali.
L’efficacia della psicoterapia nei pazienti affetti da depressione, sia in monoterapia che come trattamento aggiuntivo a quello farmacologico, è stata confermata da numerosi studi randomizzati controllati (Cuijpers et al., Depress Anxiety 2014), soprattutto per quanto riguarda la riduzione della sintomatologia depressiva, il miglioramento della qualità di vita, il miglioramento del funzionamento psicosociale e la riduzione delle ricadute (Cuijpers et al., Depress Anxiety 2014).
Al momento gli approcci psicoterapici che hanno ricevuto le maggiori evidenze scientifiche nel trattamento della depressione maggiore sono la terapia cognitivo-comportamentale (TCC) e la psicoterapia interpersonale (Interpersonal therapy – IPT). Altri approcci, tra cui la terapia di derivazione psicoanalitica, sebbene molto utilizzati nella pratica clinica, al momento non hanno ottenuto lo stesso livello di efficacia negli studi randomizzati controllati (APA, 2010).
TERAPIA COGNITIVO-COMPORTAMENTALE
Con la definizione di “terapia cognitivo-comportamentale” (TCC) non si intende una singola forma di trattamento, ma piuttosto un insieme di interventi basati sulla premessa che i pazienti affetti da depressione maggiore presentano distorsioni cognitive e schemi comportamentali disadattivi che contribuiscono alla comparsa e al mantenimento dei sintomi depressivi. La teoria cognitiva della depressione è stata sviluppata da Aaron Beck negli anni ’60, e da allora è stata ampliata e sottoposta a numerosi studi di efficacia. Secondo il modello cognitivo postulato da Beck, la depressione è dovuta al modo in cui le persone interpretano ed interiorizzano le esperienze negative della vita. Le convinzioni negative sono attivate da eventi avversi della vita che producono pensieri negativi su di sé, sul mondo e sul futuro (la cosiddetta “triade cognitiva di Beck”) che, a loro volta, conducono a uno stato d’animo negativo. Seguendo questo modello, la terapia cognitiva mira a modificare i pensieri negativi del paziente al fine di facilitare il cambiamento dell’umore e migliorare le capacità di fronteggiare lo stress.
L’efficacia dell’intervento cognitivo-comportamentale è oggi considerata comparabile con quella dei farmaci antidepressivi sia nelle fasi acute che di mantenimento della depressione, anche a lungo termine (Cuijpers et al., Depress Anxiety 2012), per cui le principali linee-guida indicano la TCC come trattamento di prima scelta nella depressione di grado lieve o moderato in monoterapia e in associazione ad un trattamento farmacologico nella depressione grave.
PSICOTERAPIA INTERPERSONALE
La psicoterapia interpersonale (Interpersonal Psychotherapy – IPT) è un modello di psicoterapia breve di comprovata efficacia nel trattamento del disturbo depressivo maggiore, che sta assumendo negli ultimi anni una sempre maggiore rilevanza. L’IPT si è sviluppata a partire dalle teorie di Harry Stack Sullivan e Frieda Fromm-Reichmann, i quali hanno focalizzato l’attenzione sui fattori familiari e ambientali che predispongono allo sviluppo della psicopatologia (Lemmens et al, 2017). Gli obiettivi della psicoterapia interpersonale consistono sia nel miglioramento delle relazioni interpersonali (diminuzione della frequenza e dell’intensità dei comportamenti disadattivi, costruzione di un nuovo modello di comportamento finalizzato al mantenimento del supporto sociale) che nella riduzione della sintomatologia depressiva. Le tecniche utilizzate nell’approccio interpersonale, che incorporano contributi di diversi modelli psicoterapici, sia psicodinamici che comportamentali, comprendono la comprensione e il monitoraggio degli stati emotivi, il confronto, l’analisi della comunicazione interpersonale e l’esame delle percezioni e delle aspettative del paziente nei suoi rapporti interpersonali (Lemmens et al., Behav Res Ther 2017).
La terapia interpersonale si è dimostrata particolarmente efficace nel trattamento della depressione maggiore (APA, 2010), soprattutto nei pazienti che presentano sintomi depressivi di grado severo. Gli studi che hanno testato l’efficacia di questo intervento riportano che più della metà dei pazienti che hanno ricevuto questo intervento hanno presentato una remissione sintomatologica completa, anche dopo otto mesi dalla fine dell’intervento. Questo approccio si è dimostrato particolarmente efficace nella depressione ad insorgenza nel peri- e post-partum, negli adolescenti, e nei pazienti in età geriatrica. Questo approccio, inoltre, si è dimostrato efficace nel prevenire le ricadute, anche con una sola sessione di richiamo mensile (Hollon et al., Depress Anxiety 2010). Alcuni studi hanno suggerito che questo approccio potrebbe essere più efficace in alcuni sottogruppi di pazienti, tra cui quelli con infezione da HIV, coloro che presentano un disturbo di personalità ossessivo-compulsivo e i pazienti che hanno presentato gravi episodi di vita stressanti (Hollon et al., Depress Anxiety 2010).
TERAPIE DI GRUPPO
Sia la terapia cognitivo-comportamentale che quella interpersonale possono essere fornite in setting individuali e di gruppo. Recentemente numerosi studi hanno focalizzato la loro attenzione sull’efficacia delle terapie di gruppo nel migliorare i sintomi depressivi, soprattutto per il migliore rapporto costi-benefici, riportando risultati incoraggianti. Tuttavia, l’efficacia clinica di questi approcci di gruppo è stata messa in discussione in quanto, dopo sei mesi di trattamento, soltanto il 18% dei pazienti che hanno ricevuto un trattamento di gruppo ad orientamento cognitivo-comportamentale ha presentato una riduzione del rischio di ricadute. Inoltre, questa percentuale tende a ridursi ulteriormente dopo un anno. Di conseguenza, le linee guida del National Institute for Health and Clinical Excellence (NICE) suggeriscono di fornire la terapia di gruppo ad orientamento cognitivo-comportamentale solo nei pazienti con sintomi depressivi sottosoglia o con depressione lieve e moderata che non hanno risposto ad un ciclo di psicoterapia individuale (NICE, 2011). Inoltre, il format di gruppo può essere particolarmente efficace soprattutto nei pazienti con depressione maggiore successivo a un lutto significativo o quando la depressione si presenta in comorbidità con patologie fisiche (APA, 2010).
L’efficacia di altre forme di terapie di gruppo, sebbene molto utilizzate nella pratica clinica, come ad esempio i gruppi di auto-aiuto, non è stata ancora documentata da studi randomizzati controllati condotti con una solida metodologia (Okumura et al., J Affect Disord 2014).
TRATTAMENTI FAMILIARI
Circa il 60% dei pazienti affetti da depressione maggiore vive con i propri familiari, che spesso sperimentano elevate difficoltà nella gestione quotidiana della malattia. La presenza di sintomi depressivi può avere un impatto significativo sul funzionamento familiare, sebbene questa associazione sia stata poco studiata, in confronto ad altri disturbi mentali come la schizofrenia o il disturbo bipolare. I familiari dei pazienti affetti da depressione maggiore riportano elevati livelli di carico familiare, inteso come le difficoltà pratiche e psicologiche legate alla convivenza con un paziente. Le principali difficoltà riportate dai familiari sono: 1) difficoltà economiche, legate prevalentemente alla riduzione della produttività lavorativa del paziente e ai costi affrontati dalla famiglia per la cura del disturbo; 2) riduzione delle attività sociali e ricreative dei familiari; 3) preoccupazione per il futuro della coppia; 4) riduzione delle capacità genitoriali. Inoltre, i familiari dei pazienti affetti da depressione presentano elevati livelli di emotività espressa, caratterizzati da ipercoinvolgimento emotivo, criticismo e ostilità, e un aumentato rischio di sviluppare disturbi psichiatrici minori quali ansia, insonnia e disturbi dell’adattamento.
Per rispondere alle esigenze dei familiari e dei pazienti con depressione maggiore e per migliorare il clima familiare sono stati sviluppati numerosi interventi strutturati, tra i quali la terapia sistemico-familiare, il counselling familiare e gli interventi psicoeducativi. L’intervento psicoeducativo familiare si è dimostrato particolarmente efficace nel ridurre le ricadute di malattia, migliorare il carico familiare e potenziare le strategie di coping di tutto il nucleo familiare, quando somministrato come trattamento integrato alla terapia farmacologica (Brady et al., J Marital Fam Ther 2016). Questo intervento rappresenta uno strumento di sostegno psicologico, utile per acquisire nuove conoscenze sulla malattia e per imparare a gestire meglio le situazioni critiche e le difficoltà familiari. Sebbene gli interventi psicoeducativi familiari siano stati inizialmente sviluppati per il trattamento della schizofrenia e del disturbo bipolare, sono stati adattati recentemente anche per il trattamento della depressione maggiore. L’intervento psicoeducativo familiare si propone di: 1) fornire informazioni ai pazienti e ai loro familiari sulla malattia, i sintomi, il decorso e il trattamento, insegnando strategie pratiche per la gestione degli effetti collaterali della terapia farmacologica; 2) migliorare gli stili di comunicazione all’interno della famiglia; 3) potenziare le capacità di problem-solving del nucleo familiare e le strategie di coping di ciascun componente familiare; 4) favorire la partecipazione sociale di tutti i familiari. Gli studi che hanno valutato l’efficacia dell’intervento psicoeducativo familiare nella depressione maggiore hanno dimostrato un miglioramento dell’aderenza ai trattamenti farmacologici, un miglioramento del funzionamento sociale del paziente e dei suoi familiari, una riduzione del carico familiare, e una riduzione significativa delle ricadute di malattia (Luciano et al., Expert Rev Neurother 2012).
COGNITIVE REMEDIATION
Studi recenti hanno sottolineato che la depressione, oltre ai sintomi nucleari affettivi, si accompagna a deficit multipli nei domini cognitivi. Bowie et al. (J Nerv Ment Dis 2013) hanno riportato che molti pazienti con depressione maggiore presentano gravi compromissioni della fluenza verbale, delle abilità visuo-spaziali, dell’apprendimento verbale e delle funzioni esecutive. Alcuni autori suggeriscono che alcuni deficit delle funzioni cognitive possono essere presenti già prima dell’insorgenza dei sintomi depressivi, rappresentando un fattore di rischio per l’insorgenza della depressione maggiore, mentre altri domini sono maggiormente legati alla sintomatologia depressiva e vanno incontro ad una progressiva riduzione con il miglioramento del quadro clinico (Harvey, Innov Clin Neurosci 2011). In particolare, è stato osservato che i domini cognitivi relativi alla memoria episodica e la velocità di processamento delle informazioni sono maggiormente associati alla gravità dei sintomi depressivi e tendono a essere presenti anche nelle fasi di eutimia (Bowie et al., J Nerv Ment Dis 2013).
I deficit delle funzioni cognitive, sebbene non siano inclusi tra i criteri diagnostici della depressione maggiore, possono essere considerati dei fattori predittivi dell’outcome a lungo termine della depressione maggiore e, quindi, dovrebbero essere attentamente valutati e trattati con interventi riabilitativi appropriati. La cognitive remediation (CR) si è dimostrata efficace nel trattamento dei deficit cognitivi in pazienti con schizofrenia (Jahshan et al., Front Psychiatry 2017) e disturbo bipolare, mentre sono disponibili solo pochi studi sull’efficacia di questo approccio nei pazienti con depressione maggiore (Reppermund et al., Psychol Med 2009).
La CR è un trattamento psicosociale basato sulle teorie cognitivo-comportamentali dell’apprendimento, che prevede un “allenamento” continuo delle funzioni cognitive da utilizzare nella vita quotidiana attraverso l’utilizzo di programmi computerizzati che permettono al paziente di esercitarsi sui domini di attenzione, memoria di lavoro, campo visivo, rappresentazione spaziale, pensiero logico, problem-solving, e abilità visuo-motorie e costruttive (Bucci et al., Schizophr Res 2013).
Gli studi attualmente disponibili che hanno valutato l’impatto della CR nei pazienti con depressione maggiore hanno evidenziato che questo intervento si è dimostrato efficace nel migliorare numerose funzioni cognitive (Naismith et al., J Affect Disord 2010), indipendentemente dal miglioramento dei sintomi depressivi. Tale miglioramento, nella maggior parte dei casi, si associa ad un miglioramento del funzionamento psicosociale del paziente, suggerendo una stretta correlazione tra i sintomi cognitivi e il funzionamento psicosociale dei pazienti nella vita di tutti i giorni. In particolare, il fatto che il miglioramento delle funzioni cognitive possa determinare un effetto sul funzionamento globale del paziente rappresenta un elemento di assoluta novità, in quanto gli studi che hanno valutato l’efficacia della CR nei pazienti con disturbi psicotici hanno evidenziato una modesta efficacia di questo intervento sul funzionamento generale dei pazienti con schizofrenia (Bowie et al., J Nerv Ment Dis 2013).
INTERVENTI PER LA PROMOZIONE DELLA SALUTE FISICA
Negli ultimi anni numerosi studi hanno evidenziato che i pazienti con depressione maggiore hanno una ridotta aspettativa di vita, soprattutto a causa di stili di vita scorretti, tra cui abitudini dietetiche inadeguate, scarso esercizio fisico, dipendenza da nicotina e abuso di sostanze (De Rosa et al., 2017). L’attenzione alla salute fisica dei pazienti con disturbi mentali ha condotto allo sviluppo di numerosi interventi psicosociali per la promozione degli stili di vita, con l’obiettivo di ridurre la mortalità dei pazienti e il rischio di patologie metaboliche (ad esempio, obesità, sindrome metabolica e diabete) e cardiovascolari (infarto del miocardio, ictus, ipertensione).
Attualmente sono disponibili numerosi interventi per la promozione della salute fisica dei pazienti con depressione maggiore. Tuttavia, la maggior parte degli interventi per la promozione della salute fisica non sono specifici per la depressione, e possono essere condotti in quasi tutti i disturbi mentali. Questi interventi, che nella maggior parte dei casi sono forniti in setting gruppali della durata media di sei mesi, si sono dimostrati efficaci in studi randomizzati controllati, nel ridurre il Body Mass Index e il peso corporeo (Goracci et al., 2016; Forsyth et al., 2015; Bush et al., 2015). È attualmente in fase di svolgimento uno studio multicentrico randomizzato controllato per il miglioramento della salute fisica dei pazienti con disturbi mentali gravi (depressione maggiore, disturbo bipolare e schizofrenia) attraverso un intervento psicosociale che si propone di modificare lo stile di vita (dieta, esercizio fisico, fumo di sigaretta, aderenza ai trattamenti farmacologici, utilizzo di alcool e droghe, ciclo sonno-veglia) dei pazienti. L’intervento psicosociale include elementi della psicoeducazione classica, dell’health coaching e dell’intervista motivazionale, viene condotto in un setting di gruppo, e prevede almeno 24 incontri a cadenza settimanale della durata di sei mesi (De Rosa et al., Expert Rev Neurother 2017).
Se da un lato gli studi sulla promozione della salute fisica attraverso l’utilizzo di interventi psicosociali hanno prodotto risultati incoraggianti, un altro filone di ricerca ha riguardato la promozione dell’attività fisica nei pazienti affetti da depressione maggiore (Mikkelsen et al., Psychol Med 2017). L’esercizio fisico, infatti, promuove una serie di modifiche fisiologiche e psicologiche responsabili del miglioramento dell’umore e dell’autostima, riducendo i livelli di stress e di ansia. Gli effetti fisiologici dell’esercizio fisico includono riduzione della pressione arteriosa, perdita di peso, aumento dei livelli di endorfine, modulazione della produzione di neurotrasmettitori e dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, responsabile della risposta allo stress (Clark et al., J Int Soc Sports Nutr 2016). Inoltre, l’attività fisica causa effetti psicologici importanti, quali la distrazione dalle sensazioni di solitudine e tristezza (Deforche et al., Int J Behav Nutr Phys Act 2015) e l’aumento del senso di autoefficacia e autostima (Middelkamp et al., J Sports Sci Med 2016). I pochi studi randomizzati controllati disponibili sullo svolgimento di esercizio fisico regolare ne hanno dimostrato l’efficacia nel ridurre l’intensità dei sintomi depressivi e ansiosi e nel ridurre i livelli di stress nei pazienti affetti da depressione maggiore, soprattutto se anziani (Belvederi-Murri et al., Br J Psychiatry 2015).