Trattamento farmacologico della Depressione
Bernardo Dell’Osso
Università degli Studi di Milano, Fondazione IRCCS Policlinico Ca’ Granda, Milano, Italia;
Department of Psychiatry and Behavioural Sciences, Bipolar Disorders Clinic, Stanford University, CA, USA
La depressione unipolare o Disturbo Depressivo Maggiore è una patologia diffusa ed altamente disabilitante, con una prevalenza lifetime superiore al 10% della popolazione generale, al secondo posto tra le maggiori cause di disabilità al mondo (Lam RW et al., Can J Psychiatry 2016). Il trattamento farmacologico della depressione, in particolare delle fasi acute, del mantenimento, e di popolazioni specifiche (pazienti anziani, donne in gravidanza, pazienti con comorbidità mediche, et coetera), rappresenta uno dei presidi terapeutici più efficaci dei quali il clinico può avvalersi nell’economia del management complessivo del paziente depresso. Taluni professionisti, tuttavia, impegnati nell’area della salute mentale, ritengono che il trattamento farmacologico della depressione, in particolare del Disturbo Depressivo Maggiore, non rappresenti l’elemento portante della gestione terapeutica del paziente depresso, mentre altri ancora sostengono che esso non si sia sostanzialmente evoluto nell’ultimo ventennio.
Se è pur vero che il trattamento della depressione non si avvale unicamente dei farmaci e che l’appropriatezza nel prescriverli è un elemento fondante e imprescindibile di una corretta pratica clinica, è altrettanto vero che negarne la relativa utilità è del tutto inaccettabile sotto un profilo clinico, scientifico ed etico: così sarebbe, invero, altrettanto improponibile dichiarare la non utilità degli antipertensivi, degli antitumorali, degli antibiotici, e così via, nel trattamento delle rispettive patologie. In realtà, non solo il trattamento farmacologico della depressione è un presidio insostituibile nella gestione terapeutica della patologia depressiva, ma, malauguratamente, esso resta scarsamente accessibile a molti pazienti che ne avrebbero grande necessità. È stato, infatti, in più sedi sottolineato come ci si trovi, attualmente, in uno scenario allarmante dal punto di vista epidemiologico: solo una minoranza di pazienti con depressione riceve, in realtà, una terapia di elevata qualità, mentre la maggior parte di essi continua a non essere trattata o ad essere trattata in maniera non ottimale – ovvero da non specialisti della disciplina e attraverso terapie non ottimali in termini di dosaggi appropriati, di effetti collaterali, di integrazione con altre forme di trattamento, et coetera (Insel TR, Nature 2017). Una conferma in tal senso proviene dagli studi sulla durata di malattia non trattata – duration of untreated illness -, ovvero sul periodo di tempo che intercorre tra l’esordio del disturbo e la somministrazione del primo trattamento farmacologico adeguato. Ebbene, nel Disturbo Depressivo Maggiore, tale periodo temporale è stato quantificato in un valore tra i due e i cinque anni (Altamura AC et al., Int J Clin Pract 2007; Dell’Osso B et al., Int J Clin Pract 2017), indicando, evidentemente, come molti pazienti non ricevano alcuna terapia o ricevano trattamenti tardivi, con conseguenze assai onerose in termini di disabilità e qualità di vita.
Dunque, la terapia farmacologica rappresenta il fondamento del trattamento della depressione, perlomeno dei casi caratterizzati da una certa rilevanza clinica, ed è questo un assunto ribadito da tutte le principali Linee Guida Internazionali (Tabella) (Gelenberg AJ, J Clin Psychiatry 2010; Davidson JR, J Clin Psychiatry 2010; Kennedy SH et al., Can J Psychiatry 2016). Appare, dunque, totalmente inammissibile qualsivoglia giudizio clinico che, allo stato attuale, si discosti da quanto dato per assodato scientificamente sulla centralità del trattamento farmacologico nel trattamento della patologia depressiva, dalla fase di acuzie al mantenimento, dalla prevenzione delle ricorrenze a quella delle relative e più temibili complicanze, rappresentate dalle condotte suicidarie. Non va mai dimenticato, infatti, che privare di un trattamento farmacologico – sia a base di antidepressivi che di stabilizzanti dell’umore – un paziente con una grave forma di depressione – che si tratti di un giovane adulto, di una puerpera o di un paziente anziano non è rilevante – può comportare, in ultima analisi, un aumentato rischio di suicidio (Courtet P e Oliè É, Bull Acad Natl Med 2014).
Unitamente al partito di coloro che negano l’utilità del trattamento farmacologico della depressione, sottolineandone unicamente i rischi e le conseguenze di un utilizzo malaccorto e non guidato dalla realtà clinica del paziente – utilizzo di per sé assai deprecabile, ma certo non per questo indicativo dell’inutilità del trattamento farmacologico -, esiste un’altra schiera di operatori professionali dell’area della salute mentale che ritiene l’utilizzo di nuovi farmaci ad azione antidepressiva privo di vantaggi concreti rispetto all’utilizzo dei primi antidepressivi. A riprova di ciò, viene spesso sottolineato come, negli ultimi anni, pochissime nuove molecole ad azione antidepressiva siano divenute disponibili per il trattamento della depressione e come vecchi farmaci antidepressivi, quali i triciclici e gli inibitori delle monoaminossidasi (IMAO), restino ancora i composti maggiormente efficaci, allorché vi sia la reale necessità di trattare una depressione di grado severo, con scarsa aspettativa, evidentemente, di risposta al placebo.
Una metanalisi di un gruppo Americano, pubblicata sul JAMA (Journal of the American Medical Association) nel 2010, aveva effettivamente dimostrato un dato che molti clinici riscontrano nella loro pratica quotidiana: l’effetto degli antidepressivi è tanto maggiore quanto maggiore è la severità della sintomatologia depressiva (Fournier JC et al., JAMA 2010). In altri termini, i casi di depressione lieve o lieve-moderata possono presentare tassi di risposta agli antidepressivi non necessariamente maggiori rispetto al placebo, andando incontro a remissione spontanea, così come possono trarre particolare giovamento da diverse forme di psicoterapia. Nondimeno, nei casi di depressione clinicamente rilevante l’impostazione tempestiva di una terapia con antidepressivi è in grado di fare senz’altro la differenza.
Orbene, se pure il dato relativo all’efficacia dei primi antidepressivi è per molti versi condivisibile e questi ancora rappresentano un utilissimo presidio terapeutico in specifici contesti, ritenere che il trattamento farmacologico della depressione non si sia evoluto negli ultimi anni è del tutto anacronistico. Diverse considerazioni di ordine clinico, diagnostico e farmacologico supportano, piuttosto, una tesi diametralmente opposta. Se si prendono in esame le già citate Linee Guida Internazionali per il trattamento della Depressione Maggiore, è possibile apprezzare chiaramente come, in nessun caso, un antidepressivo della classe dei triciclici o degli IMAO sia raccomandato in prima scelta. Unitamente all’efficacia, infatti, si è sempre più sottolineato, nell’ultimo decennio, quanto la tollerabilità e la sicurezza rappresentino due aspetti altrettanto importanti nella scelta dell’antidepressivo. Un paziente che, per ragioni di scarsa tollerabilità, decida di interrompere l’assunzione di un determinato antidepressivo prima di aver raggiunto una condizione di remissione o che non accetti di continuare ad assumere un antidepressivo oltre la fase acuta di terapia, pur in presenza di un alto rischio di future ricorrenze, rappresenta una realtà clinica di rilevante criticità con la quale molti operatori si trovano a fare quotidianamente i conti. In ultima analisi, a fare le spese delle conseguenze di una ricaduta, o di un’eventuale ricorrenza, sono in realtà i pazienti stessi, i loro familiari e la collettività tutta. I costi cosiddetti “diretti” legati ai trattamenti, alle visite in pronto soccorso e alle ospedalizzazioni sono, infatti, sempre largamente inferiori rispetto ai costi “indiretti”, legati alle conseguenze del non-trattamento o del fallimento dei trattamenti stessi, spesso dovuti a problemi di non aderenza e di scarsa tollerabilità.
Sui reali benefici dell’utilizzo degli antidepressivi di nuova generazione rispetto a quelli più datati, uno studio di follow-up di qualche anno fa aveva chiaramente mostrato come il ricorso ai primi fosse associato ad un minor tasso di cambi in terapia, ad una maggiore aderenza alle terapie e ad un minore utilizzo dei servizi sanitari (ospedalizzazioni), rispetto all’impiego di antidepressivi di prima generazione (Sheehan DV et al., CNS Drugs 2008). L’utilizzo e lo sviluppo di nuovi antidepressivi è, pertanto, condizione imprescindibile per il progresso della terapia farmacologica della depressione, finalizzato ad introdurre composti più sicuri e meglio tollerati, così come molecole in grado di agire in contesti critici e in popolazioni particolari, come il paziente anziano, il paziente con depressione resistente ai composti di primo livello, il paziente con forte rischio di suicidio: e ciò solo per menzionare alcuni esempi.
Quanto osservato non deve essere, tuttavia, letto – giova ribadirlo – come un messaggio in antitesi rispetto all’utilizzo di farmaci antidepressivi di prima generazione. A differenza degli specialisti che, in passato, avevano a disposizione unicamente tali composti, attualmente si ha una maggiore conoscenza dei contesti clinici in cui tali farmaci possono trovare un valido utilizzo, se ne conoscono i limiti in termini di collateralità, i rischi in caso di sovradosaggio et coetera.
In un periodo storico caratterizzato dall’esigenza di rivedere la nomenclatura dei farmaci psicotropi (Zohar J et al., Eur Neuropsychopharmacol 2014), inclusi gli antidepressivi, al fine di non contestualizzarne l’uso solo a contesti clinici limitati, non riconoscere il valore dei nuovi composti, le differenze nel loro meccanismo d’azione e i relativi vantaggi in termini di tollerabilità e sicurezza appare totalmente censurabile e dissintono nei confronti di quella che, a tutti gli effetti, rappresenta l’essenza della medicina di precisione, di cui tanto si è parlato negli ultimi anni.
Come è noto, la “precision medicine” nasce come un’iniziativa della Casa Bianca nel 2015, incentrata soprattutto alla cura del cancro e del diabete, ma in seguito estesasi a tutte le branche della medicina, volta a sviluppare trattamenti mirati e personalizzati, sulla base della variabilità individuale di specifici sottogruppi di pazienti con determinate caratteristiche. In altri termini, la capacità di combinare evidenze di ordine genetico e biologico con dati di ordine clinico può senz’altro portare ad ottenere diagnosi più precise e, di conseguenza, terapie più efficaci. Obiettivi di tal genere sono stati raggiunti nel trattamento di alcune forme tumorali e nella terapia del diabete, che attualmente vive un periodo di grandi innovazioni.
In un contesto come quello descritto, la patologia depressiva e il relativo trattamento – soprattutto di ordine farmacologico – continuano ad apparire due scenari di grandissima e drammatica attualità, alla luce dei dati di prevalenza e di disabilità di cui siamo a conoscenza, nei confronti dei quali approcci riduzionisti e negazionisti non sono di alcuna utilità e sembrano riecheggiare le parole di Don Ferrante a proposito della peste di manzoniana memoria. Il trattamento farmacologico, in particolare a base di antidepressivi, resta in ultima analisi ciò che gli anglosassoni definiscono come “cornerstone” della terapia della depressione. Lo stesso non rappresenta sempre una soluzione definitiva al problema della depressione e può integrarsi pienamente all’interno di strategie complesse di trattamento che prevedano il ricorso ad altre forme efficaci di trattamento quali le psicoterapie, gli interventi di neurostimolazione e gli approcci di nutraceutica.