Farmacogenetica e Depressione
Francesco Oliva, Giuseppe Maina
Università degli Studi di Torino - Polo didattico San Luigi Gonzaga di Orbassano, Torino
Il disturbo depressivo maggiore è una patologia psichiatrica cronica caratterizzata da un’elevata prevalenza lifetime (dall’1,0% in Repubblica Ceca al 16,9% negli Stati Uniti (Kessler RC et al., Annu Rev Public Health 2013) e da alti tassi di morbilità e mortalità (Kessler RC et al., JAMA 2003). Attualmente, questo disturbo è riconosciuto come una delle principali cause di disabilità a livello mondiale (GBD 2016 Disease and Injury Incidence and Prevalence Collaborators. Lancet Lond Engl 2017), ed ottimizzarne la prevenzione ed il trattamento è considerato un obiettivo prioritario di interesse internazionale (Chisholm D et al., Lancet Lond Engl 2007).
L’impiego di farmaci antidepressivi, nelle forme moderate e gravi di depressione, è da considerarsi un trattamento di prima linea ed è un’opzione terapeutica da tenere in considerazione, insieme ad altri tipi di interventi, anche nei casi di lieve gravità (Kennedy SH et al., Can J Psychiatry Rev Can Psychiatr 2016).
Tuttavia, nonostante le numerose molecole attualmente disponibili in commercio, il tasso di risposta ai farmaci antidepressivi resta non ottimale, attestandosi circa sul 50% (Papakostas GI et al., J Clin Psychiatry 2009), ed il loro impiego è gravato da un’incidenza di effetti collaterali che può arrivare al 55% (Papakostas GI, J Clin Psychiatry 2008).
I risultati di uno dei più grandi studi sul trattamento del disturbo depressivo maggiore, il Sequenced Treatment Alternatives to Relieve Depression (STAR*D), mostrano che solo un 30% dei pazienti manifesta una risposta clinicamente apprezzabile al primo intervento farmacologico, mentre il tasso cumulativo di remissione, considerati i diversi interventi sequenziali, si attesta sul 67% (Sinyor M et al., Can J Psychiatry Rev Can Psychiatr 2010).
Sebbene diversi fattori possano essere cruciali nel determinare la risposta di un paziente ad un determinato farmaco, ad esempio la gravità della patologia in considerazione, la dieta o l’interazione con altri principi attivi contestualmente assunti, la genetica di un individuo gioca un ruolo fondamentale nel determinare variazioni nella metabolizzazione di una sostanza o nell’interazione di una molecola con il suo bersaglio (Hamburg MA & Collins FS, N Engl J Med 2010).
La farmacogenetica, termine coniato nel 1959 da Friederich Vogel, studia proprio l’interazione fra la genetica di un individuo e la sua risposta ai farmaci ed ha come obiettivo principale la personalizzazione del trattamento, ossia l’individuazione della migliore terapia farmacologica per ogni singolo, particolare individuo (Vogel F, Ergebnisse der Inneren Medizin und Kinderheilkunde 1959).
La ricerca in campo farmacogenetico ha trovato la sua più ampia espressione in ambito oncologico, dove terapie dirette da informazioni di natura genetica sono considerate ormai fondamentali come standard di cura in numerose patologie neoplastiche (Gonzalez de Castro D et al., Clin Pharmacol Ther 2013).
Per quanto riguarda il trattamento con farmaci antidepressivi, fattori genetici sembrano contribuire in modo considerevole alla variabilità interindividuale (42-50%) nella risposta alla terapia farmacologica e nell’insorgenza di effetti collaterali (Crisafulli C et al., Front Pharmacol 2011; Tansey KE et al., Biol Psychiatry 2013).
Questa variabilità è da attribuirsi a elementi sia farmacocinetici sia farmacodinamici. Per quanto riguarda il versante farmacocinetico, le isoforme 2D6, 2C19, 2C9, 1A2, 3A4/3A5 e 2B6 del citocromo P450 sembrerebbero essere coinvolte nel metabolismo degli antidepressivi sebbene con notevoli differenze da una molecola antidepressiva all’altra (Tabella; Wu-Chou AI et al., Melatonin, Neuroprotective Agents and Antidepressant Therapy 2016). Tuttavia le variazioni alleliche delle isoforme CYP 2D6 e del CYP 2C19 sembrerebbero comportare le modificazioni più significative del profilo di metabolizzazione delle molecole antidepressive con evidenti risvolti clinici (Wu-Chou AI et al., Melatonin, Neuroprotective Agents and Antidepressant Therapy 2016; Kirchheiner J et al., Mol Psychiatry 2004).
Sebbene la ricerca in campo farmacogenetico si sia sviluppata soprattutto in senso farmacocinetico, dato il minor numero di geni coinvolti nel determinare variazioni fenotipiche con rilevabili risvolti clinici, nella farmacogenetica degli antidepressivi anche la componente farmacodinamica ha una certa rilevanza, soprattutto considerando variazioni alleliche dei geni codificanti il polipeptide Brain-Derived Neurotrophic Factor (BDNF; Niitsu T et al., Prog Neuropsychopharmacol Biol Psychiatry 2013).
A fronte della mole di evidenze riscontrate e riportate in letteratura, esiste un forte razionale biologico nel considerare l’integrazione di informazioni di tipo farmacogenetico nella propria pratica clinica (Mrazek DA et al., JAMA 2011).
Con il progredire degli sviluppi informatici e tecnologici, le analisi di tipo genetico stanno, col passare degli anni, vedendo una notevole riduzione dei prezzi di realizzazione. Questo ha portato allo sviluppo di diversi test genetici, disponibili per impiego clinico, venduti anche direttamente ai professionisti. L’impiego di questi strumenti sta conoscendo un utilizzo crescente: il numero di test farmacogenetici effettuati è raddoppiato tra il 2012 ed il 2014 e si calcola che sia nuovamente raddoppiato nel 2015 (Gardner KR et al., Psychiatry J 2014).
Le evidenze sull’utilità clinica di indagini di tipo farmacogenetico nella pratica clinica psichiatrica, in particolare per quanto riguarda il trattamento farmacologico del disturbo depressivo maggiore e dell’impiego di farmaci antidepressivi più in generale, sono ormai abbondanti (Bousman CA et al., BMC Psychiatry 2017).
Sebbene non esistano ancora delle linee guida circa le indicazioni e l’appropriatezza dell’impiego nella quotidiana pratica clinica di test farmacogenetici specifici per i farmaci antidepressivi, la letteratura scientifica recente inizia a fornire dei consigli pratici per l’impiego dei test attualmente disponibili in commercio (Bousman CA et al., Lancet Psychiatry 2016).
Tuttavia, una recente revisione sistematica ha preso in analisi tutti i trial clinici e gli studi di costo-beneficio condotti sui test farmacogenetici nel trattamento del disturbo depressivo maggiore evidenziandone alcune criticità (Rosenblat JD et al., J Clin Psychiatry 2017).
Sebbene la maggior parte dei trial clinici mostrino risultati promettenti, molti di essi presentano dei limiti considerevoli. La maggior parte di essi non presenta un appropriato gruppo di controllo, non è stato condotto in cieco o non presenta un’appropriata randomizzazione. Inoltre, si tratta di studi finanziati dalle aziende produttrici dei test, e gli autori sono sottoposti a conflitti d’interesse che inficiano l’obiettività scientifica dei risultati.
Per quanto riguarda gli studi incentrati sul rapporto costo-beneficio, i risultati sono abbastanza discordanti, anche sulla base delle differenze nel livello economico e della spesa sanitaria dei diversi paesi presi in considerazione (Olgiati P et al., Prog Neuropsychopharmacol Biol Psychiatry 2012).
Inoltre, se da un lato alcuni studi mostrano che i test farmacogenetici possano non essere convenienti (Hornberger J et al., Am J Manag Care 2015), lo sviluppo tecnologico e l’abbattimento dei costi di queste procedure è in continuo aggiornamento: in pochi anni il prezzo di un’analisi precedentemente anche molto costosa potrebbe ridursi notevolmente, rendendo obsoleta una valutazione costo-beneficio anche relativamente recente.
Tra gli studi relativi all’efficacia dei test farmacogenetici, uno in particolare (Brennan FX et al., Prim Care Companion CNS Disord 2015) si presenta effettivamente valido, essendo randomizzato, controllato e condotto in doppio cieco. Lo studio mostrava un aumento statisticamente significativo delle remissioni cliniche nel gruppo di pazienti sottoposti ad indagine farmacogenetica di tipo farmacocinetico. Tuttavia, nonostante tutti i pazienti fossero trattati con farmaci antidepressivi, non tutti erano però affetti da disturbo depressivo maggiore, poiché alcuni erano sottoposti a trattamento farmacologico con farmaci antidepressivi per un disturbo d’ansia.
Due altri studi randomizzati e controllati sull’impiego di test farmacogenetici nel trattamento del disturbo depressivo maggiore confermavano un miglioramento statisticamente significativo nel gruppo di intervento, ossia quello in cui la scelta del farmaco prescritto era guidata da informazioni di natura farmacogenetica, rispetto ai controlli. Tuttavia, entrambi questi studi erano monocentrici e condotti su campioni esigui, rispettivamente di 51 (Winner JG et al., Discov Med 2013) e di 148 (Singh AB, Clin Psychopharmacol Neurosci Off Sci J Korean Coll Neuropsychopharmacol 2015).
Uno studio ancora più recente (Pérez V et al., BMC Psychiatry 2017), non incluso nella revisione sistematica sopra citata, anch’esso randomizzato, controllato e condotto in doppio cieco, ha mostrato a dodici settimane un tasso di risposta significativamente più elevato nei pazienti affetti da disturbo depressivo maggiore in cui la scelta del farmaco era stata guidata da un test farmacogenetico di ultima generazione (47,8% vs 36,1%, p = 0,048; OR = 1,62 [95%CI 1,00-2,61]). Inoltre, anche la frequenza d’insorgenza e la gravità degli effetti collaterali erano inferiori nel gruppo d’intervento (68,5% vs 51,4%, p = 0,026; OR = 2,06 [95%CI 1,09-3,89]). Considerando l’ampio campione di pazienti inclusi (N = 316) e la completezza del test farmacogenetico impiegato basata su principi farmacocinetici e farmacodinamici (Neurofarmagen®, AB-Biotics SA, Barcelona, Spain), questo studio è da considerarsi sicuramente come uno dei più informativi rispetto all’impiego dei test farmacogenetici ideati per la valutazione del trattamento del disturbo depressivo maggiore.
In conclusione, sebbene esista una consistente e recente letteratura attestante l’efficacia dei test farmacogenetici nel migliorare la risposta alla terapia e nel ridurre l’insorgenza di effetti collaterali nel trattamento con farmaci antidepressivi dei pazienti con diagnosi di disturbo depressivo maggiore, i risultati andrebbero confermati da altri studi di alto livello qualitativo.
Inoltre, revisioni più frequenti dovrebbero essere condotte sui rapporti costo-beneficio di questi importanti strumenti, tenendo conto della loro rapida evoluzione e dell’altrettanto repentina riduzione dei prezzi. Infine, dovrebbero essere al più presto redatte valutazioni sull’appropriatezza concernente il loro impiego che possano fornire indicazioni chiare sulle modalità di applicazione nella realtà clinica quotidiana del medico psichiatra.