Depressione e Suicidio
Maurizio Pompili, Tommaso Imperio, Denise Erbuto
Dipartimento di Neuroscienze, Salute Mentale e Organi di Senso (NESMOS), Servizio per la Prevenzione del Suicidio,
Azienda Osperaliero-Universitaria Sant’Andrea, “Sapienza” Università degli Studi di Roma
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) stima che ogni anno nel mondo circa 880.000 persone muoiono per suicidio (World Health Organization, 2014). In Italia i morti per suicidio sono oltre 4.000 ogni anno. Queste stime a grandi linee segnalano un decesso per suicidio ogni 40 secondi e un tentativo di suicidio ogni 3 secondi. I tentativi di suicidio, infatti, sono da 10 a 20 volte superiori al numero dei suicidi portati a termine. Questa premessa doverosa, ci fa riflettere su quanto il suicidio sia un fenomeno largamente diffuso nella popolazione, al punto da essere considerato la seconda principale causa di morte in un età compresa tra i 14 ed i 29 anni, ed anche una tra le principali cause di morte tra i 18 ed i 44 anni, in ambo i sessi. Un errore dettato dalla logica del senso comune è quello di associare, in termini di relazione causale, il disturbo depressivo maggiore ed il rischio di suicidio. La visione che oggi sembra rendere giustizia alla complessità del fenomeno risiede nel considerare la depressione un fattore contribuente importante ma non esclusivo nel determinare il rischio di suicidio. Questo ha portato a concludere che il suicidio è più relazionato ad una vulnerabilità acquisita durante lo sviluppo e che pone l’individuo in pericolo quando eventi avversi e disturbi psichiatrici irrompono nella vita di un individuo. Per anni la letteratura ha citato in modo poco critico lo studio di Guze e Robins (Br J Psychiatry, 1970) che afferma che il 15% dei pazienti depressi muore per suicidio. Studi più recenti hanno riconosciuto l’esistenza di una gerarchia nel rischio di suicidio in pazienti con disturbi psichiatrici.
Bostwick e Pankratz (Am J Psychiatry, 2000), nei loro studi stimano che la prevalenza del rischio di suicidio lifetime in soggetti ricoverati per rischio di suicidio è del 8,6%. Per i disturbi affettivi in pazienti ricoverati senza specifica di rischio di suicidio, la prevalenza lifetime è del 4,0%. La prevalenza lifetime per pazienti con disturbo affettivo in trattamento ambulatoriale è del 2,2%, e per la popolazione generale senza disturbi affettivi è meno dello 0,5%.
Un interessante studio (Kessing, Br J Psychiatry, 2004) ha preso in considerazione il rischio di suicidio in relazione alla gravità dell’episodio depressivo. In questo studio un campione molto vasto di pazienti alla loro prima dimissione – di cui 1.103 con una diagnosi ICD-10 di episodio depressivo lieve; 3.182 con una diagnosi di episodio depressivo moderato e 2.914 con una diagnosi di episodio depressivo grave – mostra differenze significative per il rischio di suicidio e di ricaduta della malattia, che aumenta in relazione al disturbo depressivo da lieve → moderato → grave.
Dalla Tabella 1 si evince come la depressione sia associata più di altri disturbi psichiatrici al rischio di suicidio, risultando seconda solo al disturbo bipolare.
Colpisce come il rischio di suicidio venga frequentemente ascritto alla diagnosi di depressione, mentre poca e scarsa attenzione è data alle caratteristiche della crisi suicidaria in se. Tali caratteristiche quando sono presenti nei soggetti depressi spesso spiegano la loro determinazione al suicidio. Questo pone una particolare enfasi sull’identificazione di quei soggetti depressi realmente a rischio di suicidio. Con l’obiettivo di fornire una visione più chiara di questi due fenomeni riportiamo, nella Tabella 2, un tentativo di separarne le dimensioni principali.
Non c’è dubbio che la depressione, o meglio l’umore depresso, sia un elemento contribuente allo sviluppo del dolore mentale, anticamera per la messa in atto di un suicidio. Fu Edwin Shneidman, psicologo clinico statunitense e padre della suicidologia, il primo a proporre un modello del suicidio basato sul dolore mentale insopportabile (psychache). Secondo la sua teorizzazione l’individuo in crisi vede il suicidio come miglior metodo per risolvere il dolore mentale divenuto insopportabile, che non lascia altra via di uscita se non la morte.
Il suicidio è il risultato di un dialogo interiore. La mente passa in rassegna tutte le opzioni possibili che possano placare il dolore mentale, quando emerge l’idea del suicidio la mente lo rifiuta e continua la verifica delle opzioni. Qualora tuttavia non si riesca a trovare una soluzione soddisfacente alla risoluzione del dolore, il suicidio si ripropone, fin quando la mente accetta il suicidio come soluzione, lo identifica come l’unica risposta, l’unica opzione disponibile, dunque lo pianifica.
L’individuo sperimenta uno stato di costrizione psicologica, una visione tunnel. Emerge il pensiero dicotomico, ossia il restringimento del range a due sole opzioni (veramente poche per un range): avere una soluzione specifica e totale (quasi magica) oppure la fine (suicidio).
Il suicidio è meglio comprensibile non come desiderio di morte, ma come cessazione del flusso di idee, ovvero la completa cessazione del proprio stato di coscienza e dunque la risoluzione del dolore psicologico insopportabile.
Il nostro obiettivo deve dunque essere quello di rendere più tollerabile tale dolore mentale.
In primo luogo, è fondamentale parlare del suicidio con i pazienti. Le domande da porre devono mirare a comprendere i sentimenti, il perché pensino che non valga più la pena vivere. È sempre bene indagare sulla pianificazione del suicidio, e sul metodo deciso per attuarlo.
Operare sul dolore mentale, significa anche avvalersi dell’aiuto dei trattamenti farmacologici specifici. La letteratura mostra come un episodio depressivo maggiore non trattato o trattato senza successo, costituisca la principale causa di tentativi di suicidio e di suicidio propriamente detto (Rihmer et al., J Affect Disord, 2006). L’importanza dell’utilizzo degli antidepressivi per la prevenzione del suicidio si è ormai consolidata da moltissimi anni. Nei pazienti con depressione maggiore che ricevono un trattamento farmacologico a lungo termine (antidepressivi e/o stabilizzatori dell’umore), il rischio di compiere un atto suicidario o di tentarlo si riduce del 53%-93% rispetto ai pazienti che non assumono alcun tipo di terapia (Guzzetta et al., J Clin Psychiatry 2007). È di fondamentale importanza, però, monitorare nel tempo i pazienti che hanno ricevuto un trattamento antidepressivo in quanto il rischio di comportamento suicidario nei pazienti depressi che assumono antidepressivi è relativamente più frequente nei primi 10-14 giorni di trattamento, ovvero nei giorni precedenti l’inizio dell’azione antidepressiva (Simon et al., Am J Psychiatry 2007).
Gli antidepressivi sono stati sottoposti a notevoli indagini circa il loro impatto sul rischio di suicidio. Sebbene si ritenessero i principali ausili per ridurre il rischio di suicidio, alcune ricerche dimostrarono che potevano avere un ruolo nell’aumentare tale rischio. La letteratura si è arricchita dunque di articoli che accusano oppure scagionano questi farmaci, nello specifico gli inibitori selettivi del re-uptake della serotonina (SSRI). Con il tempo si è chiarito che in molte circostanze l’uso dell’antidepressivo è controindicato se prescritto impropriamente a soggetti affetti da disturbo bipolare in fase depressiva o in soggetti a rischio di suicidio poiché peggiora proprio quei sintomi più temibili come l’agitazione, l’insonnia e in generale un senso di inquietudine interna. Inoltre, nella popolazione giovanile i rischi sembrano essere molto maggiori che nelle altre fasce d’età e molta enfasi oggi è posta proprio sul sapiente uso di questi farmaci in rapporto all’età e allo stato psichico del soggetto. L’uso dell’antidepressivo andrebbe evitato nelle fasi acute di rischio di suicidio ove tutto è instabile e suscettibile di cambiamenti repentini, soprattutto in condizioni che, potrebbero sottendere uno stato misto o disforico.
La comparsa di alcuni segni e sintomi dovrebbe guidare l’uso o la sospensione del farmaco antidepressivo nell’ambito del monitoraggio del rischio di suicidio. Si tratta delle condizioni in cui sopraggiungono agitazione, ansia, insonnia, stati disforico-irritabili, rabbia, comparsa di nuovi sintomi non precedentemente accertati. Il medico deve dunque valutare una terapia alternativa fino alla sospensione. La terapia con l’antidepressivo può essere poi iniziata in una fase successiva di maggiore stabilità.
Un discorso a parte merita il litio. La sua comprovata azione antisuicidaria lo rende un farmaco di primo utilizzo anche nella depressione maggiore con rischio di suicidio (Guzzetta et al., J Clin Psychiatry 2007). Interessante notare il benefico effetto che l’utilizzo del litio ha in quei pazienti con disturbo dell’umore ricoverati per episodio depressivo maggiore. A tale proposito, uno studio condotto nel 2001, ha evidenziato come, dividendo in tre gruppi i pazienti – quelli con risposta eccellente, quelli con risposta media e quelli con risposta scarsa – l’azione del litio nel ridurre il rischio di suicidio si esplica non solo in coloro che ben rispondono alla terapia ma anche in coloro che, rimanendo alle prese con sintomi depressivi, hanno un diminuito rischio di suicidio (Ahrens B, Muller-Oerlinghausen B. Pharmacopsychiatry 2001).
Il litio diminuisce le recidive della malattia depressiva sia nella depressione maggiore che nel disturbo bipolare confermando anche in quest’ultimo caso le proprietà contro il rischio di suicidio.
Una possibile azione del litio che può spiegare l’effetto antisuicidario è il potenziamento della funzione serotoninergica cerebrale a livello limbico prefrontale. Questo effetto potrebbe sopperire alla ben nota riduzione serotoninergica spesso identificata nei soggetti a rischio di suicidio o in quanti muoiono per suicidio (Pompili et al., La prevenzione del suicidio, 2013).
Per aumentare l’efficacia delle terapie, l’attuale prospettiva introdotta dai nutraceutici permette di servirsi di formulazioni che combinano i principi della nutrizione e quelli della farmacologia. Ne risulta che tale combinazione potenzi la terapia farmacologica antidepressiva. Infatti, un gran numero di fattori possono rendere difficile l’azione dei farmaci; i nutraceutici possono ristrutturare meccanismi fisiologici permettendo un miglior metabolismo farmacologico. Tra i numerosissimi esempi che vedono l’impiego dell’N-Acetil Cisteina (NAC) nel potenziamento della terapia dei disturbi dell’umore, citiamo il caso del NAC nella riduzione dell’ideazione suicidaria in pazienti con depressione bipolare e confrontati con pazienti con caratteristiche analoghe trattate con il placebo (Waterdrinker et al., J Clin Psychiatry, 2015).
Anche la psicoterapia riveste un ruolo cruciale per la gestione del rischio di suicidio in pazienti depressi. Oltre ad avere il beneficio di aumentare l’aderenza e incrementare l’efficacia della farmacoterapia (Fountoulakis et al., Can J Psychiatry 2009), la psicoterapia si offre come spazio di riflessione e contenimento a supporto di quanti necessitano di parlare, essere compresi soprattutto nei momenti più difficili. Non è raro che i pazienti, in particolar modo coloro che vivono nell’unicità del proprio dolore e della propria inaiutabilità, non nutrano fiducia nell’intervento di psicoterapia. A fronte dell’arduo compito di aprire un varco nell’unicità del dolore individuale il terapeuta è chiamato a intervenire attraverso la messa in atto di un ascolto empatico.
In ultima analisi, sebbene il riconoscimento e la gestione del disturbo depressivo maggiore, includendo l’identificazione del rischio di suicidio, sia sostanzialmente migliorata negli ultimi decenni, i principali problemi nella quotidiana pratica clinica rimangono il saper effettuare una corretta diagnosi, anche attraverso un’accurata anamnesi, e quindi saper identificare le sottodiagnosi ed i mancati trattamenti sia farmacologici che psicoterapici. L’errata diagnosi di un episodio depressivo o di un elevato rischio suicidario in un disturbo depressivo, è ancora molto comune e genera un inadeguato trattamento sia a breve che a lungo termine. È cruciale effettuare un’accurata identificazione della natura dell’episodio depressivo poiché gli antidepressivi in monoterapia possono aggravare il corso della malattia a breve e a lungo termine determinando l’aumento del rischio dei tentativi di suicidio. È opinione comune che tutti gli operatori sanitari debbano saper riconoscere precocemente un disturbo mentale o una condizione di rischio suicidario e indirizzare i pazienti verso un servizio specialistico per impostare un adeguato ed efficace trattamento.
A tal proposito, vogliamo concludere riportando l’acronimo che l’American Association of Suicidology ha coniato nel tentativo di sensibilizzare e familiarizzare con i segnali di allarme per il suicidio: “IS PATH WARM?” che letteralmente significa “Il sentiero è caldo?”.
L’acronimo IS PATH WARM? sta a significare:
(I) Ideation – threatened or communicated
(ideazione suicidaria, minacciata o comunicata).
(S) Substance abuse – excessive or increased
(abuso di sostanze, aumentato o eccessivo).
(P) Purposeless – no reasons for living; anhedonia
(mancanza di una ragione per vivere, anedonia).
(A) Anxiety, agitation/insomnia
(ansia, agitazione, insonnia).
(T) Trapped – feeling no way out; perceived burdensomeness (sentirsi in trappola, nessuna via di uscita, sentirsi di peso per se e gli altri).
(H) Hopelessness (disperazione).
(W) Withdrawal – from friends, family, society
(ritiro dagli amici, dalla famiglia, dagli altri).
(A) Anger (uncontrolled)/rage/seeking revenge
(rabbia, aggressività, cercare vendetta).
(R) Recklessness – risky acts, unthinking
(comportamenti ad altro rischio, non curarsi di sé).
(M) Mood changes (dramatic)
(rapidi cambiamenti dell’umore).