Strategie di prevenzione e trattamento del declino cognitivo
Alessandro Padovani, Luca Rozzini
Clinica Neurologica, Dipartimento Scienze Cliniche e Sperimentali, Università degli Studi di Brescia
ABSTRACT
La malattia di Alzheimer (AD) rappresenta la causa più comune di demenza associata ad una malattia neurodegenerativa progressiva. Questa malattia è principalmente associata ad un accumulo di ß-amiloide e all’iperfosforilazione della proteina Tau nonché a una diminuzione dei livelli di acetilcolina e una riduzione del flusso ematico cerebrale. Inoltre, essa è caratterizzata da alterazioni della barriera emato-encefalica, stress ossidativo, compromissione mitocondriale, neuroinfiammazione e alterazioni del metabolismo. I trattamenti farmacologici per l’AD possono essere suddivisi in due categorie: trattamenti sintomatici come inibitori dell’acetilcolinesterasi e antagonisti del recettore N-metil-D-aspartato (NMDA) e trattamenti “disease-modifying” ovvero terapie dirette contro l’amiloide e terapie dirette contro le alterazioni della proteina Tau. In questo ambito, vanno inclusi i trattamenti mirati non solo ad un migliore controllo delle comorbidità somatiche ma anche interventi in grado da una parte di intervenire su meccanismi associati alla AD (vedi stress ossidativo, neuroinfiammazione, alterazioni vascolari) e dall’altra di promuovere un’azione neuroprotettiva. In aggiunta, diverse evidenze sembrano supportare la possibilità di strategie preventive attraverso trattamenti anche non farmacologici mediante interventi sugli stili di vita e il controllo sui fattori di rischio.
INTRODUZIONE
La malattia di Alzheimer (AD) è una malattia neurodegenerativa progressiva e irreversibile, legata all’età, caratterizzata da deficit cognitivo e della memoria, ed è la causa più comune di demenza negli anziani, sebbene spesso in comorbidità cerebrovascolare. La prevalenza stimata di questa malattia nel 2015 è di 44 milioni di persone in tutto il mondo e si stima che questa cifra raddoppierà entro il 2050 (Van Cauwenberghe C et al., Genetics in Medicine 2015). La maggior parte delle persone affette da AD (oltre il 95%) ha una forma di AD sporadica o ad esordio tardivo (LOAD), oggi a ragione considerata una malattia multifattoriale in cui i fattori ambientali, fattori somatici e la predisposizione genetica contribuiscono in modo rilevante alla patologia (Chakrabarti S et al., Aging and Disease 2015) (Tabella 1).
L’altra forma di AD, ovvero familiare o ad insorgenza precoce AD (EOAD), corrisponde a meno del 5% di tutte le forme di AD ed è dovuta in larga parte a mutazioni in uno dei seguenti tre geni: (a) la proteina precursore dell’amiloide (APP) gene sul cromosoma 21, (b) presenilina 1 (PSEN-1) gene sul cromosoma 14, e (c) gene presenilina 2 (PSEN-2) sul cromosoma 1 (Bird TD et al., GeneReviews 2012; Cervellati C et al., Journal of Investigative Medicine 2016). Le caratteristiche neuropatologiche di entrambe le forme di AD sono caratterizzate dall’accumulo extracellulare di ß-amiloide in placche amiloidi e di aggregati di proteina Tau in grovigli neurofibrillari intracellulari (NFT). Vi sono dati epidemiologici, clinici e sperimentali che sostengono diversi meccanismi patogenetici: (1) l’accumulo di amiloide in placche neuritiche, placche diffuse, o in forme oligomeriche (De Strooper B et al., Cell 2016; Barage SH et al., Neuropeptides 2015); (2) l’iperfosforilazione di Tau (Šimic´ G et al., Biomolecules 2016); (3) la riduzione dell’attività di livelli di colina acetiltransferasi e acetilcolina in ampi settori della corteccia cerebrale (Contestabile A. et al., Behavioural Brain Research 2011); (4) la disfunzione mitocondriale (De Strooper B. et al., Cell 2016); (5) cambiamenti di processi metabolici quali obesità, diabete e ipercolesterolemia (Folch J. et al., Life Sciences 2015); infine, (6) la riduzione del flusso sanguigno cerebrale (Di Marco LY et al., Neurobiology of Disease 2015). Studi condotti in pazienti in fasi diverse di malattia hanno evidenziato che in aggiunta alle alterazioni classiche a carico di ß-amiloide e proteina Tau, sono presenti in particolar modo nei soggetti più anziani alterazioni a carico del metabolismo glicidico, della barriera ematoencefalica (BBB), da stress ossidativo (Chen Z. and Zhong C. Neuroscience Bulletin 2014), e da neuroinfiammazione (Haim LB et al., Frontiers in Cellular Neuroscience 2015).
1. FATTORI DI RISCHIO PER
LE FORME SPORADICHE AD ESORDIO TARDIVO
Per ridurre al minimo il rischio di un aumento della prevalenza di persone con AD, è necessario stabilire quali sono i fattori che influenzano questa malattia. Negli ultimi anni, è stato pubblicato un numero significativo di studi epidemiologici relativi alla definizione dei fattori di rischio per l’AD. I fattori di rischio individuati riguardano i cosiddetti geni di suscettibilità e fattori ambientali. Infatti, le forme sporadiche hanno comunque una forte componente genetica, in particolare correlata al genotipo di apolipoproteina E (ApoE), il fattore di rischio genetico più studiato per l’AD (Huang Y et al., Neurobiology of Disease 2014). I principali fattori di rischio cosiddetti “non genetici” includono l’ipercolesterolemia (Dias IHK et al., Biochemical Society Transactions 2014), l’obesità (Verdile G et al. Mediators of Inflammation 2015), l’iperomocisteinemia (Chakrabarti S. et al., Aging and Disease 2015), l’ipertensione (de Bruijn RF et al., BMC Medicine 2014), e il diabete di tipo 2 (DM2) (Butterfield DA et al., Molecular Basis of Disease 2014), nonostante in molti casi anche queste condizioni sono fortemente associate a loro volta a predisposizione genetica.
1.1 FATTORI DI RISCHIO GENETICI SPECIFICI
Oltre al genotipo ApoE4, la ricerca genetica ha negli ultimi anni identificato mediante tecniche GWAS e più recentemente mediante tecniche di NGS sia fattori “specifici” di rischio genetico sia fattori di “protezione”. In particolare, i principali geni coinvolti nella AD sono: ABCA7 (che trasporta substrati attraverso le membrane cellulari), CLU (una proteina chaperone coinvolta nell’apoptosi, nel trasporto dei lipidi, nella protezione della membrana, e nelle interazioni cellula-cellula), CR1, CD33 (coinvolto nel processo di endocitosi mediata da recettore clatrina-indipendenti), CD2AP (implicati nella riorganizzazione del citoscheletro e nel traffico intracellulare), EPHA1, BIN1 (coinvolto nella regolazione endocitosi e traffico, risposta immunitaria, omeostasi del calcio, e apoptosi), PICALM (coinvolte nell’assemblaggio del recettore clatrina), e MS4A (associato alla risposta infiammatoria) (Ridge PG et al., BioMed Research International 2013; Karch CM et al., Biological Psychiatry 2015).
1.2 ALTRI FATTORI DI RISCHIO
L’ipercolesterolemia è considerato uno dei principali fattori di rischio per AD (Kosari S et al., Behavioural Brain Research 2012). Il meccanismo con cui il colesterolo deregolamenta metabolismo di amiloide non è ancora stato pienamente chiarito, ma diversi studi suggeriscono che i cambiamenti nei livelli di colesterolo alterano la membrana cellulare (Lim WLF et al., Journal of Genetics and Genomics 2014), modificano il traffico delle proteine, il segnale trasduzione e la neurotrasmissione (Cuddy LK et al., Journal of Neurochemistry 2014). Vi sono dati che dimostrano che l’inibizione della biosintesi del colesterolo, riduce l’attività di γ-secretasi (Kim Y et al., Journal of Alzheimer’s Disease 2016) e che bassi livelli di colesterolo aumentano l’attività di α-secretasi (Kojro E et al., PNAS 2001) incrementando i livelli dei frammenti APP, che sono coinvolti in funzioni neurotrofiche (Leoni V et al., Chemistry and Physics of Lipids 2011). Un altro fattore di rischio consolidato è rappresentato dall’iperomocisteinemia il cui aumento dipende da diversi fattori quali l’età, gli stili di vita incluso il fumo di sigaretta (Sharma M et al., Basic and Clinical Pharmacology and Toxicology 2015) e da meccanismi genetici (Maron BA et al., Annual Review of Medicine 2009). Numerosi studi mostrano che l’omocisteina stimola l’accumulo di lipidi, processi infiammatori, e l’attivazione dei recettori N-metil-D-aspartato (NMDA) i quali sono direttamente coinvolti nella mediazione a valle del peptide ß-amiloide in modelli di AD (Poddar R et al., Journal of Neurochemistry 2009; Birnbaum JH et al., Cell Death & Disease 2015). Diversi lavori hanno collegato l’ipertensione arteriosa all’atrofia cerebrale e alla generazione di NFTs (Wiesmann M et al., Current Alzheimer Research 2015). Tuttavia, questa associazione è complessa e varia con l’età: alcuni studi mostrano che l’ipertensione arteriosa nella mezza età è associata ad un aumentato rischio di AD (Joas E et al., Hypertension 2012), mentre altri non hanno trovato alcuna associazione. L’obesità è una condizione associata a numerosi disturbi, tra i quali ipercolesterolemia, malattie cardiovascolari, sindrome metabolica e diabete mellito tipo 2 (DM2). Ci sono diversi dati che collegano l’obesità all’aumento declino cognitivo e aumentato rischio di AD (Pedditizi E et al., Age and Ageing 2016) attraverso un aumento di citochine proinfiammatorie. È stato recentemente riportato che una dieta ricca di grassi provoca danni simili a quelli osservati nella patologia di Alzheimer (Barnard ND et al., Neurobiology of Aging 2014; Morris MC et al., Neurobiology of Aging 2014). Secondo alcuni recenti studi, più che l’obesità, sarebbe un fattore di rischio il grado di adiposità (Qizilbash N et al., The Lancet Diabetes and Endocrinology 2015). In particolare, l’effetto dell’adiposità sull’incidenza di AD potrebbe essere mediata dall’impatto dell’iperinsulinemia cronica sulla barriera emato-encefalica (Letra L et al., Metabolic Brain Disease 2014). È noto che il tessuto adiposo produce molecole regolatrici chiamate adipochine, la cui disregolazione (aumento di adipochine proinfiammatorie e riduzione di adipochine antiinfiammatorie) è stata correlata con la AD (Platt TL et al., Neuroscience 2016; Arnoldussen IAC et al., European Neuropsychopharmacology 2014). Il diabete mellito tipo 2 (DM2) è un’altra malattia diffusa associata con l’obesità e l’invecchiamento, ed è considerato un fattore di rischio indipendente per AD (Mittal K and Katare DP, Clinical Research & Reviews 2016). Alti livelli di glucosio e di resistenza all’insulina hanno un impatto probabile sulle vie di stress ossidativo e sui segnali neuroinfiammatori nel cervello (Rosales-Corral S et al., Oxidative Medicine and Cellular Longevity 2015). Inoltre, molte ricerche sostengono l’ipotesi che l’AD rappresenti una risposta neuronale patologica allo sbilanciamento energetico prodotto dalla compromissione del metabolismo glicidico (Domínguez RO et al., Neurologia 2014). In aggiunta, l’insulina è ritenuta una molecola rilevante nella regolazione del metabolismo neuronale. Nel cervello, l’insulina è considerato un effettore ad azione paracrina/autocrina, legandosi ai recettori dell’insulina (IRS) e attivando il substrato IR (IRS) attraverso due percorsi, fosfoinositide-3 kinasi (PI3K) / Akt e Ras / cascata delle chinasi mitogeno-attivate. Studi sperimentali hanno dimostrato che l’insulina a livello centrale è considerata fondamentale per regolare aspetti strutturali e funzionali delle sinapsi (Nuzzo D et al., Current Alzheimer Research 2015). È importante notare che l’amiloide e ApoE possono legarsi all’IRS e causare una compromissione del segnale neuronale dell’insulina (Chan ES et al., Scientific Reports 2015). Variazioni di composizione del microbiota sono considerate quale fattore di rischio per molte malattie come l’obesità, aterosclerosi, e diabete tipo 2 in aggiunta alle malattie gastrointestinali. Più recentemente, il microbiota è stato coinvolto come possibile causa di AD (Shoemark DK et al., Journal of Alzheimer’s Disease 2015). I possibili meccanismi che legano microbiota ad AD includono (1) interazioni tra il microbiota intestinale e del sistema nervoso centrale in un “asse di microbiota-intestino-cervello” (Scheperjan F et al., Neurodegenerative Disease Management 2016), (2) il microbiota potrebbe promuovere un comportamento prione-simili da parte della amiloide (Maheshwari P and Eslick GD, Journal of Alzheimer’s Disease 2015), e (3) i cambiamenti della popolazione microbica durante l’invecchiamento (Pérez Martínez G et al., Beneficial Microbes 2014), determinerebbe come effetto un aumento delle citochine proinfiammatorie (Kamer AR et al., Journal of Neuroimmunology 2009).
2. TERAPIE FARMACOLOGICHE
La malattia di Alzheimer richiede una diagnosi precisa, possibilmente precoce, e un adeguato trattamento. Le opzioni terapeutiche sono concentrate sul miglioramento di sintomi così come la riduzione del grado di progressione del danno, sebbene queste non abbiano ridotto la prevalenza e l’incidenza della malattia. A tal fine la soluzione migliore è rappresentata dalla prevenzione primaria e secondaria (Kumar A et al., Journal of the Formosan Medical Association 2016). Gli sforzi per lo sviluppo di trattamenti eziologici sono attualmente in corso in diversi studi clinici, così come sono in corso studi sul ruolo preventivo di trattamenti come l’attività fisica, una dieta appropriata, stimolazione cognitiva, e la gestione delle comorbidità (Scheltens P et al., The Lancet 2016).
2.1 TRATTAMENTI SINTOMATICI
È ben noto che l’acetilcolina (ACh) gioca un ruolo cruciale nel mediare l’apprendimento e la memoria (Mitsushima D et al., Nature Communications 2013). Inoltre, l’interazione diretta tra amiloide e sistemi colinergici è assodata in particolare sui recettori alfa7-nicotinici. Su questa base, sono stati sviluppati vari farmaci e tra questi donepezil, galantamina e rivastigmina si sono rivelati quelli che promuovono i livelli più alti di ACh (Anand P et al., Archives of Pharmacal Research 2013) a fronte di una buona tollerabilità. L’eccitotossicità mediata da glutammato provoca un sovraccarico di calcio e una disfunzione mitocondriale, cui consegue maggiore produzione di ossido nitrico, che può essere dannosa per le cellule e indurre apoptosi neuronale a causa degli elevati livelli di radicali liberi. Questa sovrastimolazione può essere bloccata da antagonisti del recettore NMDA, come la memantina (Wang X et al., PLoS ONE 2015). La memantina protegge i neuroni attenuando la Tau fosforilazione attraverso una diminuzione dell’attività di GSK-3 (Wang X et al., PLoS ONE 2015). In aggiunta ai farmaci descritti, sono in fase di studio farmaci ad azione muscarinica e nicotinica. In aggiunta a questi, alcuni studi sembrano suggerire un’azione favorevole da parte di farmaci in grado di inibire i recettori della serotonina 5-HT6 il cui effetto indurrebbe il rilascio di acetilcolina. Analogamente, vi sono dati e studi in corso a favore di un effetto clinico favorevole da parte di farmaci antagonisti dei recettori per l’istamina H3 i quali migliorano la trasmissione colinergica. A tal riguardo, occorre segnalare che sebbene di entità modesta diverse molecole ad azione nootropa hanno evidenziato effetti sintomatici favorevoli.
2.2 TRATTAMENTO ANTI-AMILOIDE
Come descritto, la AD riconosce nel processo di amiloidogenesi e di iperfosforilazione della proteina Tau i principali meccanismi associati alle placche senili e alla degenerazione neurofibrillare. Per questo, non sorprende che molti sforzi e studi si siano concentrati su questi bersagli. Per quanto riguarda il processo di amiloidogenesi, diverse sono state le strade seguite al fine di ridurre la produzione o aumentare lo smaltimento della proteina amiloide. A tal riguardo sono stati ad oggi valutati prevalentemente inibitori enzimatici (vedi inibitori BACE e gamma-secretasi, tra i quali flavonoidi e quercetina) o induttori di attività di ADAM10 (vedi gemfibrozil, melatonina, 5-HT4 agonisti serotoninergici) senza evidenti successi (Shukla M et al., Journal of Pineal Research 2015; Pimenova AA et al., PLoS ONE 2014). Allo stesso modo, risultati contrastanti sono stati ottenuti con farmaci in grado di ridurre la fibrillogenesi così come con farmaci in grado di influenzare il metabolismo dell’amiloide sebbene questa sembra essere una strada tuttora da esplorare soprattutto nei casi con AD prodromico/preclinico. Ancora tutta da verificare la possibilità di “aspirare” la ß-amiloide mediante la somministrazione di anticorpi anti-amiloide. In realtà, a fronte di un evidente e consistente effetto biologico i lavori condotti fino ad oggi non hanno dato esito confortante ponendo qualche dubbio sulla possibilità che questa possa divenire una strategia efficace in una larga popolazione di pazienti AD. Negli ultimi decenni, la ricerca si è concentrata su terapie in via di sviluppo con l’obbiettivo di impedire l’aggregazione del peptide ß-amiloide. Tra le diverse molecole, devono essere incluse in virtù del fatto che sono tuttora oggetto di studi clinici il tramiprosato, il clioquinol, lo scylloinositol, l’epigallocatechina-3-gallato e la curcumina (Spalletta G et al., J Alzheimers Dis 2016; Francioso A et al., Bioorganic and Medicinal Chemistry 2015).
2.3 TERAPIE ANTI-TAU
Numerosi sono stati ad oggi gli studi mirati a prevenire l’aggregazione della proteina Tau iperfosforilata in grovigli neurofibrillari con risultati non significativi. Al momento sono in fase di sviluppo almeno 2 tipi di vaccini nei confronti dei quali le speranze sono consistenti (Godyn´ J et al., Pharmacological Reports 2016). Tuttavia, farmaci in grado di inibire la fosforilazione della proteina non hanno dato esito favorevole così come non significativi sono risultati gli studi condotti con farmaci in grado di inibire l’aggregazione della proteina Tau quali il blu di metilene (MB) ed i suoi metaboliti Azure A e B. Rimane da valutare se questi farmaci possano avere un effetto nelle forme precoci o in fase prodromica.
2.4 ALTRE TERAPIE
Nonostante siano state numerose le strategie esplorate, altrettanto deludenti sono stati gli esiti. Rimane ancora da valutare quale possa essere l’efficacia di farmaci ad azione insulino-simile in grado di penetrare la barriera così come l’efficacia delle statine (Godyn´ J et al., Pharmacological Reports 2016), soprattutto nelle fasi iniziali o precliniche. In questo contesto, vanno inseriti anche farmaci in uso per il trattamento del diabete di tipo II quali l’amilina e gli agonisti del recettore del glucagone soprattutto nei casi precoci di AD (Godyn´ J et al., Pharmacological Reports 2016). Infine, l’ipotesi della cascata mitocondriale include stress ossidativo, uno stato di equilibrio perduto con la sovrapproduzione di radicali liberi ossidativi nonché specie reattive dell’ossigeno (ROS) e specie reattive (RNS) (Rani V et al, Life Sciences 2016). Questo squilibrio rende ragione della possibilità che un trattamento preventivo con antiossidanti e farmaci anti-infiammatori possa ridurre il rischio legato all’azione neurotossica del peptide amiloide (Rani V et al, Life Sciences 2016).
3. TRATTAMENTI NON FARMACOLOGICI
I trattamenti non farmacologici sono importanti per la prevenzione di AD o come coadiuvanti in altri trattamenti. Le strategie di prevenzione possono essere divise in due gruppi, il primo associato con lo stile di vita ed il secondo con la dieta e le sostanze chimiche.
3.1 STILI DI VITA
Le strategie riguardanti gli stili di vita includono l’attività fisica, la stimolazione cognitiva, la restrizione calorica, e la socializzazione (Jedrziewski MK et al., American Journal of Alzheimer’s Disease & Other Dementias 2014). L’attività fisica come l’esercizio fisico aerobico è stato associato con la riduzione della prevalenza di AD in uno studio di coorte (Jedrziewski MK et al., American Journal of Alzheimer’s Disease & Other Dementias 2014; Verghese J et al., NEJM 2003). L’esercizio è risultato in grado di migliorare la neurogenesi ippocampale (Sung YH et al., Journal of Physical Therapy Science 2015) e l’apprendimento nei roditori “anziani” (Speisman RB et al., Brain, Behavior, and Immunity 2013). I meccanismi proposti per spiegare l’effetto neuroprotettivo dell’esercizio sono (1) il rilascio di fattori neurotrofici come BDNF e il fattore di crescita insulino-simile (IGF-1), il fattore di crescita nervoso (NGF), e il fattore di crescita vascolare endoteliale (VEGF) (Paillard T et al., Journal of Clinical Neurology 2015) che stimola la neurogenesi e la sinaptica plasticità neuronale attraverso la stimolazione del fattore di trascrizione CREB; (2) la riduzione dei radicali liberi nell’ippocampo così come l’aumento della superossido dismutasi e ossido nitrico sintasi endoteliale (Bekinschtein P et al., Seminars in Cell & Developmental Biology 2011). Meno convincente allo stato attuale è il riscontro che la stimolazione mentale possa proteggere contro il declino cognitivo e, probabilmente, contro l’AD (Fratiglioni L et al., The Lancet Neurology 2004) sebbene vi sono alcuni studi che supportano questa ipotesi (García-Casal JA et al., Aging & Mental Health 2016) anche sulla base di alcune evidenze a favore del fatto che la stimolazione cognitiva induce un aumento della densità neuronale (Kishi T and Sunagawa K et al, 34th EMBS ’12 August 2012). La relazione tra la restrizione calorica e longevità è nota mentre non del tutto dimostrato è l’impatto sulla AD. In diversi modelli di topo AD la restrizione calorica determina una diminuzione della Tau fosforilata e ß-amiloide nonché un incremento di SIRT1 (Dhurandhar EJ et al., PLoS ONE 2013). La socializzazione è importante per lo sviluppo umano mentale e fisico e la mancanza di esso induce la solitudine, che è stata associata a diverse malattie come la depressione, l’abuso di alcol, l’obesità, il diabete, l’ipertensione, AD, e il cancro (Mushtaq R et al., Journal of Clinical and Diagnostic Research 2014).
3.2 ALIMENTAZIONE E NUTRIZIONE
Negli ultimi anni numerosi sono stati gli studi mirati a valutare l’effetto preventivo degli integratori in particolare delle vitamine B6, B12, folati, ed E, C, e D. Gli studi sulla vitamina B hanno prodotto risultati contrastanti; da un lato, un trattamento di due anni con omocisteina e vitamina B in 271 pazienti ha indicato una differenza significativa rispetto al placebo per quanto riguarda gli indici di atrofia cerebrale (de Jager CA et al., International Journal of Geriatric Psychiatry 2012), mentre altri rapporti indicano diversi risultati (Ford AH et al., Neurology 2010). È stato proposto che l’acido folico ha attività neuroprotettiva attraverso un meccanismo epigenetico che inibisce l’accumulo peptide ß-amiloide. Al contrario, studi con vitamina E non indicano un effetto protettivo per l’AD a tre anni di trattamento (Petersen RC et al., The New England Journal of Medicine 2005), né con il trattamento combinato con vitamina C (Arlt S et al., Neurochemical Research 2012). Contrastanti e non definitivi sono gli studi a base di vitamina D (Gangwar AK et al., Indian Journal of Physiology and Pharmacology 2015). Per quanto riguarda l’assunzione di altre sostanze, alcuni studi indicano un’associazione tra la prevenzione di AD e bassi livelli di consumo di vino rosso (Barranco-Quintana JL et al., Revue Neurologique 2005) sebbene l’assunzione frequente di alcool è stato associato ad un elevato rischio di demenza (Barranco-Quintana JL et al., Revue Neurologique 2005). Alcuni dati sembrano avvalorare un effetto neuroprotettivo da parte di diverse molecole quali glucosamina, omega 3 e 6 (Cutuli D et al, Frontiers in Aging Neuroscience 2014), ß-carotene, licopene 6 (Nasri H et al., International Journal of Preventive Medicine 2014), e flavonoidi (Baptista FI et al., ACS Chemical Neuroscience 2014). Tra questi vale la pena segnalare il resveratrolo (Ma T et al., BioMed Research International 2014) e la luteolina (Yoo DY et al., Neurological Research 2013), i quali sarebbero in grado di esprimere varie attività biologiche, quali antiossidanti, anti-infiammatorie, cardioprotettive, e attività antitumorali. La dieta mediterranea può migliorare la neuroprotezione perché si basa sul basso apporto di acidi grassi saturi, un elevato apporto di acidi grassi insaturi, e polifenoli, come l’oleuropeina aglicone (OLE), i quali oltre a ridurre i livelli di colesterolo sono in grado di interferire con l’aggregazione amiloide. Gli acidi grassi monoinsaturi sono stati segnalati avere effetti antiossidanti e anti-infiammatori, nonché provocare un miglioramento della funzione endoteliale, mentre gli acidi grassi polinsaturi e gli omega 3 sono importanti per l’integrità e la funzione della membrana neuronale così come per migliorare la funzionalità sinaptica (Casamenti F et al., Journal of Alzheimer’s Disease; Safouris A et al., Current Alzheimer Research 2015). Un’altra dieta correlata ad un’azione neuroprotettiva contro le malattie neurodegenerative è la dieta asiatica, la quale comprende tè verde, curcumina, e Ginkgo biloba, grazie al loro effetto antiossidante e anti-infiammatorio (Hu N et al., BioMed Research International 2013). D’altra parte, la dieta occidentale è considerato un fattore di rischio per AD perché caratterizzata da un livello eccessivo di zucchero e di grassi saturi (Hu N et al., BioMed Research International 2013). Infine, un altro trattamento non farmacologico potrebbe essere l’assunzione di probiotici per la loro riduzione delle citochine proinfiammatorie associati ai cambiamenti della flora intestinale durante l’invecchiamento (Duncan et al., Maturitas 2013). Inoltre, gli effetti benefici dei probiotici in AD sono stati associati alla produzione di metaboliti di fermentazione, compresi gli acidi grassi a catena corta (SCFA) come propionico e butirrico. Un recente studio ha riportato un effetto neuroprotettivo in un modello murino di demenza vascolare da parte del Clostridium butyricum mediante un aumento dei livelli cerebrali di butirrato (Liu J et al., Liu BioMed Research International 2015).
CONCLUSIONI
La Malattia di Alzheimer, a differenza di quanto ritenuto fino ad alcuni anni fa, è oggi considerata una malattia multifattoriale nel cui contesto diversi sono i meccanismi coinvolti che includono non solo la cascata dell’amiloide. Sebbene ad oggi non vi siano terapie in grado di contrastare o modificare in modo significativo il decorso della malattia, vi sono consistenti dati sperimentali ed epidemiologici che suggeriscono la possibilità di una prevenzione sia mediante il controllo dei fattori di rischio sia mediante la combinazione di trattamenti farmacologici e non farmacologici. Come sopra riportato, infatti, le principali alterazioni neuropatologiche associate alla AD possono essere modulate a vari livelli non solo influenzando direttamente i meccanismi coinvolti nel processo di amiloidogenesi e di iperfosforilazione della proteina Tau, ma anche intervenendo nei meccanismi associati quali neuroinfiammazione, alterazione della barriera ematoencefalica, stress ossidativo. Inoltre, seppure ancora preliminari, vi sono evidenze che i cambiamenti degli stili di vita unitamente alla supplementazione di diversi integratori o sostanze possano incrementare efficacemente i processi di neuroprotezione e di fatto rafforzare la difesa all’effetto neurotossico espresso dall’accumulo di amiloide. In questo contesto, quanto emerge da numerosi studi clinici e sperimentali rafforza l’opinione che, al fine di modificare il decorso clinico, l’approccio alla Malattia di Alzheimer, anche nel caso delle forme conclamate, dovrebbe mirare in linea con il paradigma della medicina di precisione a valutare nel singolo malato il maggior numero di condizioni di rischio e predisporre un trattamento “personalizzato” che includa non solo specifiche terapie farmacologiche ma anche specifici interventi non farmacologici mirati ad incrementare la riserva cognitiva e funzionale (Petersen RB et al., J Alzheimers Dis 2015).
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